La vita e’ un dono. Per chi crede, un dono di Dio. Per chi non crede, un dono della natura. E questo comparire alla vita misterioso, sorprendente, inatteso, evoca, negli uni e negli altri, stupore e meraviglia, sentimenti di gratitudine, di fiducia, di apertura ad una relazione originaria, costitutiva, testimone di un valore universale.
Siamo tutti figli, figli di Dio. Nessuno di un dio minore. Neppure chi al senso di attesa, di speranza che accompagna la vita sembrerebbe quasi, al contrario, volersi sottrarre, assumendola come un possesso esclusivo che, fondato in sé e da custodire in proprio, si chiude a riccio entro un orizzonte autoreferenziale.
Eppure, è uguale per tutti quella magica apertura al “tu” materno attorno a cui il neonato via via costituisce il nucleo primario del suo “io”, unico, irripetibile, insopprimibile.
Per questo, quando si affrontano – anche sul piano del confronto politico e parlamentare – temi di rilevante impatto etico ed antropologico, una linea di demarcazione la si avverte anzitutto qui. Non necessariamente come una cesura insuperabile e brutale, impraticabile ad ogni argomentazione tra laici e cattolici.
C’è da augurarsi che un dialogo sia possibile anche in ordine all’orientamento legislativo che il Parlamento è stato invitato dalla Corte Costituzionale ad assumere – entro il prossimo 24 settembre – in ordine all’articolo 580 del Codice Penale, relativo al reato di istigazione o aiuto al suicidio.
L’argomento e’ circoscritto ed è francamente fuori luogo che venga assunto come occasione e pretesto per dar luogo ad una legislazione propriamente eutanasia.
Non di questo discute la Corte, ma piuttosto del regime sanzionatorio dell’articolo di cui sopra che può effettivamente essere riconsiderato, riflettendo come chi pur dovesse affiancare la persona che intende autonomamente porre fine alla propria vita non sia imputabile di un concorso attivo all’atto suicidario.
Ciò che è francamente da respingere è l’intento ad introdurre, anche nel nostro ordinamento giudiziario, quel diritto alla morte che non trova alcun riferimento che lo giustifichi o, comunque, lo ammetta nella nostra Legge Fondamentale e così pure in quella norma interiore e profonda, quindi non scritta, ma ancor più scolpita nel sentimento originario di appartenenza alla nostra comune umanità.
Per chi crede vale del tutto quella dimensione del dono che e’ tale se lo si accetta fino in fondo, incondizionatamente, sapendo che permane sempre perché inesauribile.
Ogni dono ricevuto ci impegna, a nostra volta, a donare, senza mai interrompere quella relazione di fondo che è costitutiva di ciò che siamo e, quindi, ci trascende cosicché non possiamo disporne.
Non e’ necessario, in definitiva, essere cattolici o comunque credenti per dire schiettamente, razionalmente “no” all’eutanasia ed, anzi, concorrere alla costruzione di contesti familiari, locali e sociali più vasti che siano accoglienti e sappiano far sentire, anche a chi nella sua solitudine ne dubita, il valore inalienabile della vita di ognuno.
Chiunque, a qualunque indirizzo culturale di fondo si senta debitore della propria formazione, dovrebbe chiedersi se questa inclinazione alla morte, concepita come unica possibile risposta alla sofferenza, non sia un cattivo e pericoloso sintomo di quel tanto di nichilismo che pervade oggi il nostro mondo e che, piuttosto che assecondato e blandito, andrebbe combattuto con determinazione e coraggio.
Ed anche chi assume l’ “autodeterminazione”, quasi ideologicamente, come una sorta di mantra inappellabile, espressione certa di quel supremo valore della libertà che, nell’atto stesso del suo esercizio estremo, garantirebbe la dignità della persona, dovrebbe riflettere se effettivamente “autodeterminazione” e “libertà’” siano la stessa cosa o almeno sempre coincidano.
Se per “autodeterminazione” intendiamo un determinarsi “da se’”, ma anche “per se’”, non cadiamo forse in un circuito solipsistico ed autoreferenziale che, per lo meno, contraddice quella dimensione di relazione, di apertura alla condivisione che ogni atto di libertà autentica necessariamente contempla?
Nessuno è mai libero da solo.
In quanto a noi cattolici una difesa dei valori che la fede implica che sia ferma, puntuale, libera da compromessi più o meno opportunistici, scevra di mediazioni ambigue o mal condotte, è necessaria e doverosa.
Ma nulla ha a che vedere con l’appropriazione stentorea di valori da esibire in chiave identitaria, come vessilli da sventolare su fortini assediati.
Dobbiamo piuttosto saper mostrare, argomentando, come ciò che crediamo e chiamiamo “ valore” – in questo caso addirittura il valore primario, quello della vita – abbia in sé una intrinseca ricchezza che vale del tutto anche sul piano immediatamente umano e civile ed è, quindi, offerta come possibile campo di un’ azione comune.
Certo, la “diaspora” non ci aiuta.
Va ricomposta, almeno su un fronte così delicato e dirimente, purché lo si faccia per il rilievo in sé della questione in gioco e non si cada nell’uso strumentale di un tema per noi irrinunciabile per forzare una convergenza che non si sa costruire altrimenti.
Si può aprire un tavolo di lavoro comune?
Diretto almeno ad un patto libero di reciproca consultazione, nel senso – come suggerisce Mons. Pennisi in una recente intervista su Don Sturzo, comparsa su Avvenire – di un “pluralismo ordinato”.
Dovremmo provarci, in vista – su questo tema capitale e su altri argomenti eticamente sensibili che non mancheranno – della nostra partecipazione collegiale ad un confronto che è bene appartenga non a questa o quella maggioranza di governo, ma al Parlamento nella libera articolazione di culture che vi sono rappresentate ed al Paese intero che va coinvolto in una discussione collettiva su questioni dotate di un forte impatto antropologico, affrontando le quali, cioè, si ridisegna la consapevolezza di sé, della vita, della storia che l’umanità’ del XXI secolo va rielaborando.
Domenico Galbiati
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