Il dibattito in corso in queste settimane sul DDL in tema di omofobia ha messo in luce, accanto alle ragioni dell’intervento legislativo, anche le imprecisioni e le ambiguità contenute nel testo. Nei giorni scorsi è intervenuto sul tema anche il presidente della CEI, card. Bassetti, offrendo alcune semplici considerazioni che mi paiono del tutto condivisibili. Non vi è dubbio che vadano difese le persone omosessuali. Esse, e proprio in quanto persone, sono titolari e portatrici di dignità e diritti inviolabili, che nessuna differenza di sesso, comunque vissuta, può annullare. Questo va riaffermato con chiarezza e decisione. Con altrettanta chiarezza e decisione va però anche detto che «il testo dev’essere scritto in modo semplice e chiaro» in modo da non prestarsi «ad essere interpretato in varie maniere» e rischiare di «sfociare in altre tematiche che nulla hanno a che vedere con l’omofobia, gli insulti o le violenze». Il controverso punto sulla “identità di genere” – controverso dal punto di vista scientifico e giuridico – che alimenta la preoccupazione che punti di vista culturali possano divenire “reati d’opinione”, merita perciò di essere oggetto di più approfondita discussione. Così come sarebbe utile chiarire la differenza tra chi diffonde idee e chi istiga a commettere atti di discriminazione e violenza, evitando di affidare la materia all’interpretazione del giudice. Si tratta di questioni non capziose, le quali, se riguardano aspetti tecnici del DDL, aprono tuttavia scenari culturali e politici rilevanti.
Rispetto alle osservazioni di Bassetti e alla richiesta di un supplemento di esame del testo, il dibattito attorno al DDL appare invece avvitato in una alternativa fra opposte rigidità, che spesso esula dal merito della legge e finisce per confondere rispetto alla strada prioritaria che dovrebbe essere percorsa. Trattandosi di un DDL, che riguarda peraltro un tema che non può essere considerato di parte, dovrebbe infatti essere cosa normale per il Parlamento discutere, mediare, emendare ed approvare il testo modificato con la maggioranza più larga possibile. Non è forse questo il senso del procedimento legislativo? Perché allora attardarsi in discussioni che riducono la politica al livello del talk show? Come non vedere che in tal modo più che risolvere i problemi si radicalizzano le divisioni? Dispiace che partiti di una certa consistenza e tradizione non colgano l’occasione per mettere in campo una proposta che sia di “mediazione”: dove questo termine non significa compromesso, ma capacità di costruire, attorno al punto medio dei diritti, della cura e della dignità della persona, politiche efficaci che mobilitino le energie della società tutta. Rispetto a questa mediazione, che è il compito della politica in democrazia, si preferisce schierarsi dietro posizioni che hanno il sapore di una deriva tardo-ideologica con venature libertarie, che speravamo superata da una più ampia visione di libertà responsabile. Questa annotazione vale un po’ per tutti i partiti, ma particolarmente per il PD, che non può permettersi di rinunciare alla sua costitutiva vocazione pluralistica, regalando in tal modo spazio politico a una destra che, al di là del merito, è ben contenta di cavalcare un’improbabile difesa dei valori. Non mi sembra affatto che questo sia il momento giusto – se mai ce n’è uno – per forzature inutili e dannose, che fanno perdere consensi e non modificano la realtà delle cose.
Perché la questione che il DDL Zan vuole affrontare ha purtroppo radici più profonde del livello su cui la legge riesce ad agire. La legge, benché necessaria, non è tuttavia sufficiente. Lo vediamo a proposito del femminicidio, regolato da una legge molto dura e tuttavia inefficace nell’impedire il ripetersi di atti di violenza sulle donne, come purtroppo le cronache quasi giornalmente ci dicono. Il fatto è che le discriminazioni di ogni genere, ma in particolare quelle a sfondo sessuale, sono sempre figlie di una mentalità e di una cultura della violenza e della sopraffazione. È questo il vero muro da abbattere, per far rifiorire un terreno nuovo, dove siano l’accoglienza e il rispetto reciproco a costituire la trama di relazioni improntate alla convivenza pacifica. Di fronte a questo impegno nessuno può tirarsi indietro. Ciascuno, singoli o realtà sociali e comunitarie, deve portare il proprio contributo al cambiamento di mentalità auspicato. Anche la comunità ecclesiale deve sentirsi chiamata in causa e coinvolta in questo lungo processo di nuova coscientizzazione nella società che, a ben vedere, potrebbe essere favorito da una approvazione della legge con un consenso largo.
Perciò, e proprio per raggiungere gli obiettivi che vengono dichiarati, vanno apportate delle modifiche migliorative al testo, ascoltando tra l’altro anche quei costituzionalisti che segnalano aspetti in contrasto con la Costituzione e gli esponenti di varie culture (compresa quella femminista) che, non a caso, marcano i punti contraddittori. La posta in gioco è troppo grande per disperdere energie e buone idee in dispute ideologiche di cui non si sente onestamente alcun bisogno.
Ernesto Preziosi