Una novità che sta preoccupando non poco l’intero sistema del non profit e che coinvolgerà con vincoli stringenti lo svolgimento delle attività di interesse generale e lo sviluppo dei modelli organizzativi. I nuovi obblighi sono contenuti nell’articolo 112 del disegno di legge di Bilancio e si propongono di estendere le modalità di gestione e vigilanza già previste per gli enti pubblici anche agli operatori di mercato privati e, cosa ancora meno comprensibile, agli enti del Terzo settore e non profit in senso ampio.

Le disposizioni puntano ad inserire meccanismi di vigilanza sull’impiego di risorse pubbliche all’interno degli enti con una preoccupante modalità di ingerenza e condizionamento rispetto all’autonomia delle realtà destinate ad operare nell’interesse collettivo. Ma vediamo quali potrebbero essere le ripercussioni legate alle nuove procedure e quali le auspicabili revisioni alla legge di Bilancio in vista dell’approvazione del testo definitivo.

Gli scenari. Negli organi di controllo il possibile ingresso del Ministero delle Finanze

 Anzitutto, concentriamo l’attenzione sul primo obbligo previsto dall’articolo 112 del Ddl Bilancio . Gli enti che percepiscono contributi pubblici “di entità significativa”, pari ad almeno 100mila euro annui, dovranno integrare il proprio collegio sindacale o organo di revisione inserendo un rappresentante del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef).

In sostanza, il nuovo obbligo potrebbe scattare a fronte della ricezione di una serie eterogenea di contributi, specie se si considera che la norma parla di contributi pubblici corrisposti agli enti anche in modo indiretto e sotto qualsiasi forma. In proposito, si pensi, oltre ai contributi a fondo perduto, anche a quegli istituti, a valere sulle risorse pubbliche, in grado di incidere in positivo sul bilancio dell’ente, come, ad esempio, i crediti d’imposta o le super/iper-deduzioni.

Questa disposizione, che nelle intenzioni del Governo dovrebbe mirare a rafforzare la trasparenza sull’impiego del denaro pubblico, solleva non pochi interrogativi e si presenta del tutto decontestualizzata rispetto al comparto del Terzo settore. In primo luogo, va considerato che l’organo di controllo degli Ets, per sua natura, deve garantire indipendenza e imparzialità, rappresentando uno strumento di vigilanza interna sull’osservanza dei principi di corretta amministrazione e di adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile dell’ente. Tant’è vero che i componenti dell’organo di controllo (e dell’organo di revisione, se nominato) sono obbligatoriamente retribuiti, al fine di garantirne il corretto operato, mentre le altre cariche sociali posso ben essere onorifiche. A complicare ulteriormente il quadro normativo che emerge dall’art. 112 è il fatto che la norma si rivolge espressamente ai “collegi”, trascurando che gli Ets possono anche nominare un organo di controllo composto da un solo membro effettivo. A meno che non si voglia ammettere un vero e proprio effetto sostitutivo del controllo Mef in caso di organo monocratico, assimilabile in tal senso al “commissariamento” dell’ente alla stregua di ente pubblico o di una società controllata dalla P.A. Spetterebbe in tal caso al membro di nomina ministeriale anche il compito di monitorare l’utilizzo dei fondi pubblici ricevuti dall’ente. Insomma uno scenario che di per se appare scarsamente ragionevole  oltre che di difficile realizzazione sul piano operativo.

Provando a seguire le preoccupazioni del legislatore nell’introdurre le nuove misure di controllo è appena il caso di osservare che gli enti del Terzo settore sono già soggetti alle funzioni di vigilanza, monitoraggio e controllo del Ministero del Lavoro, che coordina l’operato degli uffici del Runts (il Registro unico nazionale del Terzo settore) . Difatti, al Ministero è attribuito il compito di vigilare sull’intero operato degli Ets rispetto a quanto previsto dal Codice del Terzo settore, con attenzione alla corretta destinazione delle risorse verso finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Senza contare che gli Ets si caratterizzano, rispetto alla generalità degli enti privati, per le garanzie di trasparenza gestionale che derivano dal deposito delle informazioni al Registro Unico, che è pubblicamente consultabile. Ne consegue che la nomina di un rappresentante del Mef, con funzioni di monitoraggio sull’impiego delle risorse pubbliche, potrebbe rappresentare l’introduzione di un ulteriore livello di controllo, il cui valore aggiunto per gli Ets risulta però non del tutto chiaro.

I possibili vincoli di spesa e i nuovi limiti all’operato del Terzo settore

Non solo. L’articolo 112 prevede un altro intervento che potrebbe astrattamente limitare la capacità operativa degli Ets. La norma, infatti, introduce, per gli enti che ricevono contributi pubblici superiori a 100mia euro annui, un tetto di spesa per l’acquisto di beni e servizi, basato sui valori medi sostenuti nel triennio 2021 – 2023. Si tratta di una misura di contenimento della spesa già sperimentata per le amministrazioni pubbliche e che, se estesa senza criterio, si presta a diverse criticità.

In primo luogo, occorre considerare la specificità delle attività svolte dagli enti del Terzo settore, che, secondo il principio costituzionale di sussidiarietà, operano al fine di fornire una risposta concreta e flessibile ai (mutevoli) bisogni della collettività. In tal senso, imporre una limitazione sull’acquisto di materie prime, di consumo e/o di merci, nonché limitare i costi sostenuti dagli Ets per la fruizione di servizi, potrebbe comportare una indebita assimilazione delle realtà del Terzo settore alle amministrazioni pubbliche, difficilmente giustificabile in ragione del diverso ruolo svolto, nel contesto socio-economico italiano, dagli enti non profit iscritti nel Registro unico.

Per meglio dire, l’introduzione di un rigido tetto di spesa potrebbe mettere a rischio l’efficacia operativa nel soddisfare appieno i bisogni della collettività di riferimento. In tal caso verrebbe penalizzata di riflesso proprio quest’ultima a fronte di una limitazione alla possibilità di gestire liberamente le risorse in base agli indirizzi della governance.

A ciò si aggiunga che gli Ets spesso ricevono donazioni e finanziamenti privati per strutturare e attuare progetti di utilità sociale, il cui impiego potrebbe risultare compromesso da una normativa che limita le spese a monte. Tale limitazione peraltro non sarebbe correlata all’entità del finanziamento pubblico ricevuto ma finirebbe per compromettere l’intero sistema di gestione delle spese dell’ente.

Insomma applicare agi Ets criteri di spesa pensati per il settore pubblico appare irragionevole, se non dannoso per l’economia sociale.

Al di là di questa considerazione di carattere generale, il Codice del Terzo settore già prevede criteri di prudenza in tema di spese sostenute dagli Ets, stabilendo che questi non possono effettuare acquisti di beni e servizi per valori superiori rispetto a quelli di mercato, se non per giustificati motivi economici. Un vincolo concepito dal legislatore della Riforma del Terzo settore per evitare che le risorse degli Ets siano utilizzate in modo improprio, o distratte rispetto alle finalità di interesse generale, garantendo, però, al contempo, la libertà gestionale necessaria per rispondere ad esigenze sociali diffuse. Libertà gestionale che non appare altrettanto garantita se si guarda alle limitazioni prospettate dall’art. 112.

Le proposte di revisione normativa: ma è davvero necessario equiparare un ente del terzo settore ad un ente pubblico?

Alle criticità appena evidenziate vanno aggiunte, come anticipato, le rimostranze manifestate in sede di audizione parlamentare dal settore privato, potenzialmente destinatario dell’art. 112 del Ddl di bilancio. In questo contesto, appare quanto mai opportuna anche una riflessione sulla possibilità di escludere gli enti del Terzo settore dai nuovi obblighi.

D’altronde, se l’obiettivo del Governo è garantire un’attenta vigilanza sull’impiego del denaro pubblico, tale esigenza non può sfociare in una inutile duplicazione di controlli, che andrebbero a sovrapporsi all’operato del Ministero del lavoro, o nella apposizione di un tetto di spesa che rischia di compromettere l’efficienza operativa delle realtà orientate al sociale che agiscono in veste di operatori privati pur agendo nell’interesse collettivo.

Al contrario, l’introduzione, nel testo della norma, di specifiche ipotesi di esclusione, consentirebbe di concentrare risorse e attività di controllo dello Stato sui soli enti che, a livello economico, dipendono dal pubblico, rispondendo in modo più efficace alle dichiarate esigenze di contenimento della spesaTra le ipotesi emerse in audizione, infatti, si segnala anche la proposta di un’abrogazione integrale dell’articolo 112, o di una sua riformulazione più mirata, che applichi tali vincoli solo laddove necessario per garantire trasparenza sull’utilizzo di fondi pubblici. Resta quindi da vedere se, in fase di stesura del testo definitivo della legge di bilancio, si troverà una mediazione capace di bilanciare il controllo della spesa pubblica con la tutela dell’autonomia operativa del Terzo settore e, più in generale, del settore privato.

Gabriele Sepio

Pubblicato su www.vita.it

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