Il punto di caduta di Giorgia Meloni nella vicenda europea è rappresentato dalla sua incapacità di privilegiare l’interesse dell’Italia, distinguendolo e separandolo dalle sue particolari convenienze di partito.
Un incrocio del genere è, peraltro, pressoché inevitabile quando si cede al vezzo di una “personalizzazione” del potere, a sua volta connessa ad una supponenza di sé priva di fondamento.
Dando prova, in questo modo, di una carenza di cultura istituzionale che un “capo di governo” non può facilmente permettersi, e tale da non poter essere supplita da una ipertrofia dell’ “ego” che, al contrario, complica il quadro.
Si sono fatalmente annodate le contraddizioni latenti nella narrazione politica del nostro Paese, destinate, come appunto avviene fin d’ora, a giungere al pettine. Da un lato, la sovrapposizione nella stessa persona del ruolo di capo del governo italiano e di leader di un raggruppamento ispirato ad una cultura politica che suscita la diffidenza delle forze storicamente e schiettamente europeiste.
Dall’altro, la forzata coabitazione tra il piano europeo di integrazione sovranazionale ed un livello del governo nazionale fortemente connotato in senso sovranità. Non a caso – e si tratta di un dato su cui riflettere molto attentamente – la maggioranza del governo Meloni è letteralmente esplosa all’impatto con l’Europa, cosicché ogni componente ha fatto per sé , a prescindere o addirittura a dispetto dei propri alleati.
D’altra parte – a dimostrazione di un ondivago zigzagare senza meta – Giorgia Meloni, visibilmente contrariata dall’alleanza tra popolari, socialisti e liberali che la esclude, contesta il fatto, in sé ovvio, che in un Parlamento si formi una maggioranza politicamente connotata.
Per altro verso, si riscopre leader di governo ed invoca, per l’attribuzione dei ruoli apicali e per la stessa nomina dei Commissari, un cambio di registro, incardinato sui paesi come tali, piuttosto che sulle affinità di ordine politico che, appunto, diano luogo, alla formazione di un’alleanza dotata di una propria visione e di un proprio programma.
Sicuramente si tratta di due chiavi interpretative che devono essere fatte convivere, ma non si può negare la prima e privilegiare unilateralmente la seconda, come se pensassimo l’Europa – ma non è , infatti, questo l’intendimento della Meloni ? – come una “confederazione” di stati o di nazioni, piuttosto che come progetto politico orientato all’ unità del continente.
Ad ogni modo, dopo tante roboanti parole, il prezzo di tale imperizia rischia di pagarlo l’Italia, che finisce per essere omologata al dato politico contingente del governo attualmente in carica.
Infine – ed è un elemento da non sottovalutare – l’ultima pennellata al
capolavoro di Giorgia Meloni la danno i suoi stessi più cari amici.
Da Orban che sostiene il socialista Antonio Costa, al leader ceco Fico – quest’ultimo organico al raggruppamento dei conservatori – il quale vota tutte e tre le figure in gioco; e poi i conservatori polacchi che stanno valutando se abbandonare o meno Giorgia Meloni.
Comunque, ad essere letteralmente frullata nel gorgo scomposto di tante contraddizioni è soprattutto Forza Italia.
È lecito chiedersi come la mette, a questo punto, Antonio Tajani?
Domenico Galbiati