Adriano Olivetti – scomparso sessanta anni fa, il 27 febbraio 1960 – era un uomo di impresa che concepiva il proprio ruolo al di là di una mera, se pur necessaria, logica di profitto. Riteneva cioè che l’azienda, prima che un conglomerato produttivo, fosse una comunità umana, dove al centro dovessero sempre collocarsi le persone che vi lavorano. Da qui il suo incessante impegno per valorizzare l’apporto dei lavoratori, coinvolgendoli, per quanto possibile, nell’organizzazione aziendale.
Idee innovative che, come spesso accade in questi casi, gli alienarono molte simpatie nel mondo imprenditoriale, senza per questo procurargli il plauso di sindacati o dei settori progressisti della politica.
Nata ai primi del secolo, e insediata ad Ivrea, la Olivetti disponeva di molte carte sul fronte dell’innovazione, a cominciare da prodotti come le macchine per scrivere e le calcolatrici che stavano rivoluzionando – come mezzo secolo dopo i computer – il lavoro d’ufficio. Ricerca e progettazione furono gli ingredienti che favorirono l’instaurarsi di un diverso clima aziendale, rispetto a realtà più tradizionali. Molti decenni prima che fosse addirittura coniato il termine di responsabilità sociale di impresa (di cui troppo spesso oggi si parla a sproposito), Olivetti fu un vero precursore di questo approccio. Mise in piedi cioè una fabbrica che poneva la persona al centro del processo produttivo e che, oltre a nuovi sistemi organizzativi, fu dotata di servizi d’avanguardia – come mensa, biblioteca, asilo nido – del tutto sconosciuti alle imprese dell’epoca.
Olivetti, culturalmente intriso di un socialismo umanitario, riteneva che il lavoro umano dovesse avere sempre il primato sul capitale e che dunque i lavoratori fossero la vera ricchezza dell’impresa. E quella eporediese fu un’impresa che seppe anche dedicarsi al proprio territorio, ponendosi come snodo di crescita civile oltre che economica. Una partecipazione alla vita cittadina che si concretizzerà nella realizzazione, già negli anni Trenta, di un villaggio per i dipendenti con abitazioni incastonate nel verde, sul modello dei Paesi del nord Europa.
Difficili furono invece i rapporti con la politica, scontando sia la diffidenza della DC che l’avversione del PCI. La prima intravedendo in quell’esperienza imprenditoriale persino qualche sospetta reminiscenza protestante, e il secondo bollando come paternalista quella logica inclusiva estranea al canone marxista della lotta di classe. Incomprensioni che certo fecero male all’imprenditore di Ivrea, convinto assertore di un nuovo modo di lavorare e promotore di una terza via tra capitalismo e socialismo, assai vicina alla Dottrina sociale della Chiesa.
Con la sua morte improvvisa, a soli 59 anni, anche il suo originale orizzonte di pensiero perse rapidamente quota e di lì a pochi anni nell’azienda di Ivrea non si parlerà più quel linguaggio.
A tanti decenni di distanza resta però intatto il valore di quell’esperienza umana e professionale che continua ad affascinare. Ormai è più che evidente come un certo liberalcapitalismo, asservito alla sola dimensione finanziaria, non sia in grado di sostenere l’economia reale. Ripensare allora ad Adriano Olivetti può essere un modo per riscoprire alcune interessanti idee sul ruolo dei lavoratori nella vita dell’impresa, facendone i protagonisti del sistema economico e dello sviluppo nel suo complesso.
Aldo Novellini
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte