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Al bivio: popolari o populisti? – di Domenico Galbiati

La tesi è questa: si può battere il populismo solo risvegliando la coscienza autenticamente “popolare” del nostro e degli altri paesi in cui la democrazia ansima.

Non basta, insomma, condannare il populismo e chi lo cavalca. E chi, per altro verso, lo asseconda con il proprio voto, cioè lo accetta e lo assume come griglia interpretativa che, in fin dei conti, gli offre almeno una qualche apparente comprensione di ciò che avviene in un mondo che gli appare disordinato, indecifrabile e, dunque, minaccioso.

Coltivare un sentimento di denigrazione o almeno di distacco ideale, politico e morale nei confronti della sua cifra demagogica fa sentire dalla parte giusta. E forse attenua il bruciore della sconfitta che il populismo infligge alle forze progressista. Ma non aiuta a capire perché attecchisca cosi facilmente al di qua ed al di là dell’Atlantico. Ci deve pur essere una ragione di fondo comune, che spieghi, almeno secondo una qualche ragionevolezza, un fenomeno che prospera su terreni di coltura pur così differenti.

Un’ipotesi attendibile che merita di essere considerata concerne la possibilità che il populismo altro non sia se non un surrogato sghembo di quella dimensione “popolare” della vita civile che abbiamo smarrito, abbandonandola impunemente ad un inesorabile declino. Se mancano solidarietà, coesione sociale, sentimento di appartenenza ad una storia comune, vengono meno fiducia, speranza, condivisione di valori di fondo, riferimento ad un interesse generale della collettività sovraordinato agli interessi particolari di ciascuno. Vengono, cioè , compromessi in radice i presupposti necessari a fondare una prospettiva di vita democratica, che nessuna architettura istituzionale, per quanto sofisticata, può garantire se prima non vive nel cuore e nella coscienza delle persone, ciascuna nella sua insopprimibile singolarità, eppure dentro un orizzonte che ricomprende tutti.

La democrazia non è mai data gratuitamente, né si può dire che esista in natura. È una conquista culturale, dunque un valore sempre definito storicamente e, quindi, perennemente in divenire, e questo non necessariamente è comunque nel segno di un avanzamento. Forse dopo un lungo, pluridecennale esercizio di vita democratica ci eravamo illusi che le cose stessero cosi, senonché oggi dobbiamo ricrederci e comprendere che la democrazia è un bene deperibile, che richiede una cura assidua e competente.

Al contrario, ci siamo incamminati lungo la strada di una progressiva atomizzazione della società, dove – almeno per quanto riguarda il nostro Paese – quelle stesse forze che avrebbero dovuto, per loro naturale vocazione, custodire ed attualizzare i valori “popolari” hanno virato, in nome dei diritti civili, verso una cultura così marcatamente individualista. Ritraendosi, di fatto, da una politica di difesa e promozione dei diritti sociali: lavoro, casa, salute, scuola, educazione e cultura, tutela degli anziani e di chi non ce la fa da solo, vivibilità dell’ambiente. Insomma, tralasciando tutto ciò che, giorno per giorno, vivono e soffrono le famiglie degli italiani. Tutto ciò che “fa famiglia”.

Nel necessario bilanciamento di diritti e doveri, non è affatto detto che i diritti civili – che nessuno può e deve sottovalutare – implichino per forza di cose una deriva individualista, come da noi sta avvenendo, in ossequio ad un pregiudizio ideologico di stampo radicale.

Ora, come sempre di fronte a sviluppi che, a prima vista, appaiono indecifrabili, si deve entrare nella loro guardia, studiarli dal di dentro. In altri termini, nessuna supponenza, ma, piuttosto, ci vuole quel po’ di umiltà che consenta di riconoscere come questi processi, per quanto possano essere o apparire insensati, abbiano una loro logica intrinseca, e più stringente di quanto siamo pronti ad ammettere. Da qui nasce quella loro forza che oggi sembra essere dirompente. È necessario risalire alla sorgente, alla motivazione originaria per comprenderne il decorso.

La democrazia – e con essa le forze progressiste che dicono di averla a cuore – il discorso pubblico in cui prende forma, attraverso il confronto tra le differenti culture politiche in campo e le relative antropologie di riferimento, non reggono il passo delle trasformazioni che letteralmente ci attraversano, come una spada che ci trafigge da una parte all’altra.

Viviamo in un mondo contorto e non c’è da esserne stupiti, se appena consideriamo di vivere la stagione delle “transizioni” Abbandoniamo postazioni storicamente consolidate e siamo in mezzo al guado, verso una sponda che ancora non riusciamo a vedere chiaramente.

Senonché, noi siamo fatti per dare alle cose un senso compiuto, in carenza del quale entriamo in una sorta di stato eretistico, inquieti, timorosi, talvolta perfino angosciati.Tutto ciò vale, allo stesso modo, per ciascuno di noi e per quella “persona collettiva” rappresentata dalla comunità.

Se non c’è chi sappia indicare un approdo credibile, verso cui camminare accompagnandoci gli uni agli altri, coltivando un’attesa comune, siamo disponibili e pronti ad abboccare all’amo di un qualunque tribuno.

Quando la dialettica democratica si spegne o latita, non restano che due opzioni: o il “capro espiatorio” o l’ “uomo forte”. E che sia così lo dimostrano quei numerosi casi della storia che hanno visto, in un rovesciamento repentino degli umori, l’uomo forte costretto a vestire i panni del capro espiatorio.

Domenico Galbiati 

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