Il cancro che devasta le democrazie del mondo e mina anche, in misura solo incipiente, ma generalizzata, molte delle democrazie europee, ad est e ad ovest, e che produce inquietanti verticalizzazione dei poteri, insofferenza del giudicato delle Corti Costituzionali, fastidio crescente per la separazione dei poteri ed il rule of law, per lo “stato sociale”, ha trovato il suo grande alleato nello spirito di guerra che si va diffondendo su scala di massa.

La guerra di Ucraina e quella di Gaza lo hanno confermato. Non basta l’esistenza di regimi repubblicani, come un tempo si diceva, o liberaldemocratici ad assicurare la pace, come credeva ancora Immanuel Kant. Le guerre tra Stati non derivano soltanto dalle tendenze dispotiche, dittatoriali, totalitarie o fondamentaliste insite nella politica interna di una serie di Stati, il cosiddetto Impero del Male cui si contrappongono gli Stati che fanno parte di una sorta di Impero del Bene. La vicenda europea sempre sospesa tra gli estremi opposti del dominio egemonico di una potenza ed una convivenza precaria di stati rivali ce lo ha dimostrato. Ci ha mostrato che l’anarchia del governo internazionale nasce da una concezione assoluta della sovranità che si è radicata in epoca moderna.

Gli uomini che guidarono la ricostruzione del secondo dopoguerra, dopo l’Anno Zero dell’Europa, l’uscita dall’Olocausto, se ne resero conto. Non basta “ripudiare la guerra” se si vuol costruire la pace. È necessario un mutamento culturale in positivo che riconfiguri le relazioni tra gli Stati e l’ordine internazionale, oltre che tra le relazioni tra le persone entro le singole compagini nazionali.

Lo scoprirono uomini come Jean Monnet, che aveva vissuto in prima persona, come funzionario della Società delle

Nazioni, il dramma della Slesia polacco-tedesca dopo la “grande guerra”, o come Aldo Moro che, di fronte al crollo disastroso del fascismo, aveva avvertito il bisogno di ripensare le basi della convivenza civile, a livello nazionale, ma anche internazionale, ed aveva realisticamente indicato la necessità di puntare, pur senza rinunziare ai necessari strumenti di difesa e di sicurezza, sul peso che può esercitare la coscienza morale dei popoli per orientare la politica estera e quindi sull’importanza di tenere aperta la prospettiva di un futuro ordine di giustizia.

Così si esprimeva Aldo Moro nel 1969: La vita internazionale, che in tanta parte ormai esprime problemi, ansie, tensioni, che sono comprensibili e valutabili non in termini di rapporti tra potenze, ma di rapporti tra uomini, con una eguale problematica al di là dei confini degli Stati, la vita stessa internazionale, dicevo, è garantita contro le esplosioni delle passioni e della potenza, non solo dai meccanismi di sicurezza, essi pure necessari, ma dal dibattito sociale aperto nel mondo dalla speranza, dalla prospettiva che anche qui la democrazia tiene aperta. La speranza e la prospettiva che la libertà contribuisca a dare ordine di giustizia tra gli uomini ed i popoli” ( Aldo Moro, Discorso ai dirigenti democristiani della provincia di Bari, 31 gennaio 1969, n. Maria Letizia Coen Cagli, Luciano d’Andrea, Marco Moltefalcone, Antologia di scritti e discorsi di Aldo Moro, Roma 17-20 novembre 2008, p. 14).

Occorreva, ed occorre, cioè, considerare le relazioni internazionali non tanto come relazioni tra Stati, tra potenze, o tra capi di Stato(e dittatori) ma come relazioni tra popoli che condividono una prospettiva comune, oggi più di un tempo, più di quanto era necessario nel 1969, dato che, se vogliamo essere realisti, siamo sempre più accomunati da una “eguale problematica” che oltrepassa le frontiere ed impone il confronto e il dibattito vero anche tra popoli. Ma tale dibattito può esser praticato solo se esso è facilitato dalla democrazia che ha il compito di tenere aperte la speranza e le prospettiva di futuro. Senza un futuro da costruire e non da ereditare in sorte non può esservi motivo per costruire insieme la pace. Ogni dittatura del futuro distruggerebbe perciò pace e democrazia in contemporanea.

Siamo di fronte a una grande sfida culturale. È qui la radice di quella “pace europea” che per un certo periodo ha sia pur difettosamente funzionato, di quella ”sovranità” che ha costruito la pace ed ha offerto un modello mondiale. Ed ha consentito, ad esempio, il “crollo pacifico” del comunismo europeo. Una pace però che va concepita in modo radicalmente rinnovato, esattamente come la definiva in termini, tutt’altro che utopistici, ancora lo statista italiano, come accettazione dei doveri della nostra umanità, come una “rinuncia alla rinuncia”, come perpetuo e ansioso “lavoro”.

“La pace, ch’è tutt’uno con la verità, verità operosa e creatrice di intese, non è un dato esterno al quale si possa comodamente aderire. Non ci possono essere parassiti della pace, perché questa è un perpetuo ansioso travaglio e si rifiuta a coloro che non hanno l’ardire di guardare in se stessi e negli altri, per trovare in una compiuta presenza nel mondo il senso pacificatore della fedeltà alla vita. […] La pace vuol dire rinunzia alla rinunzia, accettazione dello scomodo stato di essere uomini (e non per un minuto, ma per sempre), adempimento dei delicati doveri della vivezza e della intelligenza. (…) Non possiamo parlare di pace, finché gli uomini restano così estranei, così freddi, così diversi l’uno accanto all’altro, mentre la vicinanza è un peso fastidioso dal quale ci si vorrebbe liberare o che si tenta vanamente di dissolvere con la tecnica artificiosa dell’arte dei contatti sociali” (Aldo Moro, La necessità di essere uomini, Editoriale nella rivista “Studium” 1945, n.12, in: AA.VV. Antologia di scritti e discorsi di Aldo Moro, ottobre 2008, Accademia diStudi Storici Aldo Moro p. 40).

Parole profetiche queste per l’oggi pronunciate nel lontano 1945. Nell’epoca attuale in cui la “vicinanza” reale e fisica è ormai surrogata dalle mille tecnologie distanzianti le persone, ivi inclusa la tanto applaudite AI (Intelligenza Artificiale),che uccidono la relazione umana e depauperano l’essere stesso della persona, questa, ancor di più, può essere la vera e realistica “pax europea”, la pace prima di tutto come dovere morale e dovere dell’intelligenza. Fuori da questo concetto di pace sta l’Anti-Europa, l’idea di una regione del mondo, che, quando anche fosse una democrazia forte, “combattente”, militarmente unita e sicura entro i suoi confini ben difesi, sarebbe una entità simile a quelle “leghe militari”, tenute insieme soprattutto dall’idea di un “nemico comune”, unioni artificiose e strumentali, che non hanno mai, nella storia passata, assicurato vera unità e vera pace, ma hanno piuttosto alimentato sudditanze, vassallaggi, diffidenze reciproche e rivalità auto-distruttive.

Umberto Baldocchi

Tratto da “NO, LA PACE NON E FINITA ( E L’ EUROPA NEPPURE)” di Umberto Baldocchi, Effigi editore, 2024.

 

 

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