Siamo sicuri che la politica meriti davvero tutto il discredito di cui è fatta oggetto?
Oppure – per quanto faccia volentieri la sua parte per non farsi amare – non dobbiamo forse riconoscerle almeno le attenuanti generiche?
Quando un’opinione è talmente pervasiva da dilagare ovunque acriticamente, è il momento di esercitare la facoltà del dubbio e cambiare la partita con un traversone che, tagliando orizzontalmente il campo, sposti il gioco da una fascia laterale all’altra.
Spesso uno scarto improvviso del genere sorprende l’avversario e facilita la manovra d’attacco, consente di avvicinarsi al cuore del problema con un occhio libero da comodi pregiudizi.
Del resto, questo disallineamento dal gregge corrisponde ad una elementare regola di salvaguardia dell’efficenza del nostro apparato cognitivo.
Intrupparsi troppo spesso, allineati e coperti dietro l’idea di volta in volta dominante, alla fin fine fa male alla salute mentale, ne intorpidisce i riflessi, addomestica gli sprazzi creativi dell’intuizione.
Insomma, si può ancora “amare” la politica?
E, addirittura, non e’ forse necessario ripartire da qui per offrirle una chance di riscatto?
Si fa presto, ad esempio, a dire “competenza”.
Senonche’ oggi la competenza di un politico non può limitarsi alla padronanza di un’area tematica, più o meno specialistica, ben definita, ma deve piuttosto assomigliare ad un rizoma di saperi non facili da armonizzare, se vuole stare decentemente di fronte all’intrico delle questioni oggi in campo.
Così per quanto concerne l’autonomia che non è più delegabile alla reciproca chiusura preventiva di approcci ideologici alternativi ed alla splendido isolamento che ne derivava almeno sul piano teoretico, pur scontando la necessità inderogabile della mediazione sul piano immediatamente politico.
Oggi va conquistata nel vivo della prassi quotidiana ed esige che il politico disponga in proprio di una over-dose di
capacità critica, se non vuole essere via via riassorbito nelle spirali dell’opinione corrente.
Ma soprattutto anche la politica è inevitabilmente coinvolta – e ne soffre – da due processi che tipizzano, a fronte delle precedenti – pur risalendo a ritroso nel tempo non oltre qualche decennio – la stagione in cui viviamo.
Abbiamo smarrito il sentimento della trascendenza che sicuramente attiene, anzitutto, ad una visione religiosa della vita – e, quindi, ne patisce la crisi attuale – ma in definitiva rappresenta, per ciascuno e collettivamente per tutti, un dimensione costitutiva originaria del nostro essere uomini, cosicche’ non possiamo farne a meno ed, infatti, si pone come una categoria fondamentale di comprensione del mondo e dei contesti che attraversiamo.
E’ talmente vero che non ne possiamo prescindere che, avendola abbandonata, – schiacciati nell’orizzonte piatto di quella mera immanenza che non ci basta – pur senza che ce ne accorgiamo, continuiamo a costruirne surrogati che, essendo ovviamente del tutto inadatti a riempire quel vuoto, non fanno altro che aggiungere frustrazione allo smarrimento.
Infatti, se li guardiamo da vicino, molti fenomeni sociali, soprattutto relativi alle difficolta’ ed al disagio delle giovani generazioni, rispondono ad una dinamica del genere.
In secondo luogo, abbiamo perso per strada la percezione – e non è, anche qui, questione di credenti o meno; vale per tutti, anche se non lo mettiamo espressamente a tema – della vita come “dono”.
Il che recava con se’ una naturale inclinazione alla fiducia, un’ attitudine di fondo ad essere grati, il sentimento di non essere mai disperatamente soli.
Insomma, per tagliare corto, il combinato disposto di questi nuovi orientamenti dello spirito post-moderno rendono quanto mai precaria la nostra capacita’ di dare un senso compiuto alla vita.
E questa e’ per noi una grave mutilazione perché, a ben vedere, noi siamo, si potrebbe dire, macchine fatte per “dare un senso”; per riconoscerlo ed estrarlo dalla realtà checche’ se ne dica “sensata” che ci circonda; per costruirlo nella dimensione personale della vita di ognuno e nella dimensione collettiva della comunità.
Questa inettitudine a ricomporre e riconciliare le cose del mondo e della vita in una prospettiva ed in un orizzonte di senso, opera, nei confronti della politica, una formidabile azione di schiacciamento e di coartazione spaziale e temporale che, a dispetto della globalizzazione aperta e di ogni attesa futuribile di magnifici e progressi destini, ne soffoca il respiro.
Ne derivano conseguenze importanti.
Tanto per cominciare dalle nostre paure, si può dire come a farci paura non sia tanto il “marocchino” sotto casa, ma piuttosto, appunto, l’ “insensatezza” della vita.
Se la vita fosse piena e ricca di senso, in quanto al marocchino, ce ne sarebbe – e d’avanzo – anche per lui e forse scopriremmo addirittura che possiamo essere reciprocamente, l’uno per l’ altro, un arricchimento.
Domenico Galbiati