Come riportato da Colin Lecher su The Verge qualche giorno fa, nel posto di produzione di Amazon di Baltimora un algoritmo automatico individua i lavoratori che hanno uno standard di produttività al di sotto di quanto atteso e dopo una serie di “warning”, ecco il licenziamento.
300 dipendenti in un anno, riportano anche alcuni media italiani. Rapido e soprattutto “indolore”: per i manager.
Tracciamento di ogni momento della attività con sensori di posizione, algoritmi di calcolo per verificare il raggiungimento di produttività più profittevole, licenziamento conseguente per chi non è in linea con le attese: e il supervisore umano per controllare, almeno temporaneamente, che l’algoritmo non sbagli … sta ancora imparando.
La produttività è un valore importante nel rapporto di lavoro: Amazon lo sa bene, visto i profitti che consegue.
Lavorare con impegno e coscienza è un dovere morale cui ogni persona dovrebbe obbedire. Non sempre produce profitto: è una esperienza umana comune.
Quale rapporto quindi con la produttività?
Per Amazon e per le grandi aziende il rapporto è chiaro e diretto: l’indicatore è il profitto. Quale è la misura del profitto? Chi ne giudica la quantità accettabile?
Nella fiaba di Esopo, il lupo – spinto dalla sua cupidigia e dalla sua forza – accusa l’agnello di intorbidare l’acqua… e sappiamo come è andata a finire.
Quindi, per contenere la “forza” del lupo, niente di più equo che costringere il lupo a misurare “oggettivamente” quanta acqua l’agnello stia consumando, sottraendola al suo dominio: forse i sensori robotizzati possono ingannarsi?
E definito lo standard parametrico di comportamenti corretti capaci di consentire la produttività attesa, registrati in maniera oggettiva, un algoritmo di calcolo associato a meccanismi di “Machine Learning” in grado di imparare dall’esperienza la relazione esistente tra i diversi comportamenti, il volume prodotto e il guadagno conseguente, magari corretta per variabili esterne che potrebbero ridurne l’efficacia così da adeguare la produttività in tempo reale, è di sicuro il modello più sicuro e affidabile.
E rispetta la trasparenza della valutazione: oggettiva e rigorosa, quindi “equa”.
Solo e rigorosamente per soddisfare i desideri del cliente finale, si intende: si lavora solo per soddisfare l’acquirente, dominus del processo produttivo e fonte primaria dell’incremento del valore. Magari registrandone in tempo reale gusti e orientamenti: meglio se a sua insaputa, così da evitare il suo giudizio critico, ostacolo alla piena liberazione del desiderio che scaturisce dalla propria emozionalità e fargli raggiungere la piena felicità data dall’appagamento di ogni desiderio: più profitti (per alcuni) e più felicità (per quasi tutti)!
E i robot a servizio della produttività e della trasparenza: e anche della felicità.
Centralità del cliente, efficienza produttiva, trasparenza meritocratica e aumento del valore….
Tutto in mano ai robot…che non soffrono del fastidio di emozionarsi di fronte all’umano che ancora si ostina a resistere e a considerare il lavoro esperienza centrale della propria umanità, prima che tassello nella catena del valore.
“Robot homini lupus.”
C’è bisogno con urgenza di un modello economico nuovo, fatto non solo di “prodotto – profitto – cliente”.
E convertire così i robot (e non solo loro) alla “giusta causa”: al servizio delle persone. Robo-etica?
Importante non restare solo ad osservare: i fatti accadono e il senso di “soffocamento” nelle persone si accresce.
E’ necessario capire che i governi nazionali e le istituzioni sovranazionali intervengano su temi così importanti che non possono essere risolti solo in un’ottica domestica e parziale. In questa direzione va il recente rapporto dell’Organizzazione internazionale del Lavoro ( Oil ) ( CLICCA QUI ) che chiede maggiori investimenti economici in innovazione tecnologica e, soprattutto, in termini di formazione, competenze e diritti.
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