Un’azienda, pubblica, realizza profitti. Che male c’è? Nessuno. Anzi, diremmo bene. Anzi, benissimo. È ora che il pubblico la smetta di pesare sul pubblico, in termini di bilancio. E allora si chiuda il discorso.

Invece non è così. Il discorso fa tenuto aperto, perché è ampio e delicato, e ci coinvolge tutti ma proprio tutti. La materia su cui si fanno profitti infatti è comune quanto poche altre. Si tratta dell’acqua, e di più comune (ed essenziale) c’è la sola aria.

Otto anni fa un referendum che vedeva contro tutti i partiti (a cominciare da un promettente futuro segretario del Pd chiamato Matteo Renzi) abolì una legge liberista voluta dal governo Berlusconi. Recitava: la distribuzione dell’acqua e la manutenzione delle reti idriche si mettano a gara pubblica, per una questione di efficienza e serietà finanziaria. Insomma, la solita solfa. Quel referendum, a gran dispetto dei partiti, passò alla grande e fu l’inizio della nascita del Popolo Viola, poi confluito nei Cinque Stelle infine confluiti nella sciagurata alleanza con i salviniani liberisti alimentati per anni da Berlusconi.

Però qualcosa di buono, anzi parecchio, quel referendum ce lo indicò. La prima cosa è che l’acqua è un bene di tutti, perché imprescindibile fin dai primordi dell’umanità. La seconda che il pubblico deve restare pubblico.  Omnia sacra sancta sunto, e di più non dimandare. Si dirà: e allora che male c’è, per l’appunto, se aziende municipalizzate realizzano profitti? Qualcosina da ridire c’è, e anche più di qualcosina. A partire dal fatto che quei profitti non sono pubblici, ma di fatto privatizzati, grazie all’essere le municipalizzate molto spesso quotate in borsa come se fossero private o la Juventus di Cristiano Ronaldo. E quindi quei soldini, con buona pace di un altro ex sindaco di Firenze che questa volta si chiama Giorgio La Pira, non servono a migliorare i bilanci comunali o a risistemare le strade o le reti idriche, se non in scarsisima misura. Finiscono semmai agli azionisti, o a finanziare improvvide iniziative di marketing, o a garantire l’emissione di bond comunali, come in passato è avvenuto manco i sindaci fossero uomini di Wall Street.

Al cittadino nulla. Sotto il vestito niente. La rete idrica perde almeno il 30 percento della sua portata (ricordiamocene, quest’estate, quando al Sud arriveranno le autobotti), per non parlare di quella stradale (Virginia Raggi si appresta a chiamare le legioni). In compenso la bolletta aumenta come da nessuna altra parte d’Europa. Con buona pace del bene comune.

Il Movimento Cinque Stelle, che ha appena riaperto la questione e presenta un disegno di legge in materia, si agita per un doppio motivo. Lacerato oltre ogni immaginazione per il voto su Salvini e la Diciotti, deve ricompattarsi e la maniera migliore è tornare alle origini. Inoltre i risultati ben poco lusinghieri delle ultime tornate elettorali lo costringono ad una nuova appellatio ad populum. E qui sta la forza, ma anche la debolezza, dell’idea.

Non è populismo, infatti, fare una legge o almeno avviare un’iniziativa legislativa che risponda ai bisogni come anche agli interessi della persona comune. Ma diviene populismo nel momento in cui quella proposta viene illustrata come frutto di un cosiddetto contratto di governo che trasuda populismo da ogni virgola, e pertanto ai tira e molla della stravagante coalizione gialloverde verrà sottoposta. Fino – c’è da giurarci – ad essere stravolta in nome e per conto della cultura nazional-popolare che pervade l’azione di governo della Lega di Salvini.

A questo punto l’unica cosa da fare è tenere le dita incrociate per un’idea che è buona, e che sarebbe persino bello fare nostra. Ma al momento non è possibile, perché se c’è un nemico dei grillini questo è il grillismo stesso, e non c’è nulla di peggio per la migliore delle idee che camminare sulle tremolanti e fragilissime zampette di un grillo.

Strider

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