Pubblicato su www.centrostudilivatino.it
Il presidente emerito di sezione della Cassazione Pietro Dubolino prosegue la riflessione (CLICCA QUI) sui termini dell’appoggio italiano alla difesa dell’Ucraina, alla luce del dettato costituzionale e di alcune dichiarazioni del presidente Zelenski. L’intervento riprende, con qualche modifica, quello pubblicato il 12 aprile dal quotidiano ‘la Verità.
1. Il presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato ha di recente voluto spiegare come e perché l’invio di armi all’Ucraina da parte dell’Italia, nell’attuale situazione di guerra tra la stessa Ucraina e la Russia, non contrasterebbe con l’art. 11 della nostra Costituzione, nel quale si afferma che: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Tale ripudio, infatti – ha osservato Amato – non è assoluto, tanto che la stessa Costituzione prevede, in altri articoli, che l’Italia possa trovarsi in stato di guerra.
Ciò è sicuramente vero, ma vale soltanto a condizione che la guerra sia intrapresa e condotta a scopo puramente difensivo contro una ingiusta aggressione, pur se subita da un paese diverso dall’Italia non essendo essa diretta, in tal caso, né ad offendere la libertà di altri popoli, né a risolvere, con l’uso della forza, una controversia internazionale. Questa sarebbe appunto la condizione che oggi si verifica nel caso dell’Ucraina.
2. Con il che non può dirsi, però, che ogni problema sia automaticamente risolto. Anche la guerra che nasce come puramente difensiva, infatti, perde la sua legittimità quando, respinta o comunque contenuta l’aggressione, alla finalità puramente difensiva ne subentri un’altra, quale per es. quella di ritorsione nei confronti dell’originario aggressore. Una tale finalità contrasta anche con l’art. 51 della Carta delle Nazioni unite, secondo cui ogni Stato può esercitare “il diritto naturale di autotutela” quando sia stato oggetto di “un attacco armato”. Tale diritto per sua stessa natura cessa al momento stesso in cui cessa l’immediato pericolo per fronteggiare il quale esso sia stato esercitato. Ciò è in linea, del resto, con il comune principio della legittima difesa, per cui a ciascuno è consentito di difendersi dalla violenza altrui ma non gli è anche consentito, quando l’aggressore sia stato messo in condizione di non nuocere, di esercitare a sua volta violenza contro di lui, a scopo punitivo o anche solo per dissuaderlo dall’eventuale proposito di ripetere l’aggressione.
Vi è poi da osservare che quando lo Stato aggressore abbia agito nell’intento di salvaguardare interessi che di per sé siano da considerare legittimi, e quindi meritevoli di tutela, l’illegittimità dello strumento adoperato per realizzarli non comporta, come automatica conseguenza, che essi non possano o non debbano più essere, in assoluto, riconosciuti. Allo stesso modo, infatti, nell’ambito dei rapporti interpersonali, non perde i suoi diritti, quando gli stessi siano oggettivamente fondati, il soggetto che, per realizzarli, invece di ricorrere al giudice, abbia cercato di farsi giustizia da solo con violenza o minaccia alla persona, così commettendo il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni previsto dall’art. 393 del codice penale, esponendosi quindi, oltre che alla prevista sanzione penale, anche alla legittima reazione difensiva delle persona offesa.
3. Ciò comporta che, respinta o contenuta l’aggressione da parte dello Stato aggredito, rimane uno spazio per un doveroso negoziato che abbia a oggetto, per un verso, le originarie pretese dello Stato aggressore, nella misura in cui le stesse avessero, in tutto o in parte, un oggettivo fondamento, e per altro verso le pretese dello Stato aggredito a ottenere le dovute riparazioni, unitamente ad adeguate garanzie che l’aggressione non abbia a ripetersi. Il rifiuto “a priori” di una tale prospettiva da parte dello Stato aggredito fa sì che la guerra cessi, per ciò stesso, di essere puramente difensiva, e perda quindi il suo carattere di legittimità.
Nel caso dell’Ucraina, risulta dalle dichiarazioni (mai smentite) del presidente Zelenski a Fox News il 2 aprile scorso che la guerra con la Russia non potrebbe aver fine se non con il conseguimento di una non meglio precisata “vittoria” da parte dell’Ucraina. Il che ben potrebbe intendersi come rifiuto, appunto, “a priori”, di ogni soluzione negoziale del conflitto, anche nell’ipotesi che l’invasione da parte della Russia venisse definitivamente bloccata e si desse luogo, pur se in via di mero fatto, a una tregua fra i belligeranti.
Se così fosse, la guerra, per quanto sopra detto, non potrebbe più essere considerata puramente difensiva ma assumerebbe piuttosto le connotazioni di un mezzo di risoluzione (vietato, per l’Italia, dall’art. 11 Cost.), della già preesistente controversia internazionale tra Russia ed Ucraina, avente a oggetto, nell’essenziale, l’adesione o meno di quest’ultima alla NATO (vista dalla Russia, non del tutto ingiustificatamente, come una minaccia alla propria sicurezza), e la destinazione finale della Crimea e della regione del Donbass (la prima delle quali, peraltro, già in possesso, di fatto incontrastato, della Russia fin dal 2014).
4. Nell’obiettiva incertezza circa il vero significato da attribuire alla riportate dichiarazioni di Zelenski, dovrebbe quindi essere posta a quest’ultimo, come condizione inderogabile per ottenere l’invio delle armi, quella costituita dalla formale, espressa assicurazione che l’Ucraina, pur continuando a combattere legittimamente le forze di invasione, punta esclusivamente a creare le condizioni per essa più favorevoli a una soluzione negoziata del conflitto e non si pone, invece, come proprio obiettivo, la pura e semplice la sconfitta del nemico sul campo.
Una tale assicurazione, per quanto essa possa valere, Zelenski sarebbe pure disposto, forse, a rilasciarla. Ma c’è qualcuno disponibile a chiedergliela, ben sapendo che la cosa sarebbe tutt’altro che gradita a Bruxelles e a Washington ?
Pietro Dubolino