Pochi hanno notato – e il conduttore della trasmissione, Enrico Mentana, si è ben premurato di non farlo notare – che nella serata di venerdì 9 settembre, nell’ultimo sondaggio sulle intenzioni di voto che la legge consente di rendere pubblico prima dell’election day, la percentuale di coloro che non hanno dato nessuna risposta ha raggiunto lo stratosferico livello del 41%, con un aumento: del 2 % rispetto ad appena quattro giorni prima. Un segno, forse, di insolito riserbo; ma molto più probabilmente del fatto che la scelta è tra alternative tutte poco appassionanti. E soprattutto una conferma di precedenti sondaggi; che davano come molto alto il numero di coloro che probabilmente non si recheranno a votare.
La possibilità di un’astensione di massa si profila dunque per le elezioni del 25 settembre. Ma ciò non costituisce una novità. Già si era temuto che essa si verificasse nelle elezioni del 2018, quando i sondaggi la davano come probabile espressione di uno scontento assai diffuso, e che non trovava nei partiti tradizionali un’offerta politica appropriata.
Certo ! Va tenuto presente che i sondaggi, come è stato più volte possibile constatare, non sono uno strumento in grado di fotografare in maniera molto precisa quelle che saranno le scelte degli elettori al momento del voto effettivo. Anzi, non solo non riproducono fedelmente, ma finiscono in qualche misura per influire su tali scelte, perché costituiscono un’occasione per esprimere lo scontento individuale dando ad esso senso collettivo e politico. Finiscono insomma per offrire una specie di valvola di sfogo al cittadino elettore, che, quando scopre di non essere solo nel suo sentimento di rabbia e di impotenza contro il sistema, ne deriva conforto, e in qualche misura anche la speranza di possibili cambiamenti e di tempi migliori
Il rischio del voto a dispetto
Sappiamo tutti come è, invece, andata a finire nelle elezioni di quattro anni fa. Anziché tradursi nella prevista astensione di massa, l’irritazione dell’opinione pubblica contro le forze politiche organizzate si concretò in una enorme ondata di voti dati “a dispetto”, e quasi per ripicca. ad un movimento – il Vaffa! – che si presentava come esplicitamente portatore non solo di una forma di dileggio, ma di un vero e proprio rigetto nei confronti dei partiti.
Il M5S portò allora in Parlamento, col 35,37% dei voti, una rappresentanza estremamente raccogliticcia, una vera e propria armata Brancaleone composta dai personaggi più vari, alcuni dei quali semi-analfabeti, molti senz’arte né parte. Eppure un’armata di dimensioni storiche.
Certo non si trattava di una maggioranza comparabile a quella che aveva ottenuto la Democrazia Cristiana nel 1948 (305 deputati su 574, e 131 Senatori su 237), alle elezioni in cui l’Italia si laureò come parte dell’Occidente e come fondamentale – ma democratico – terreno di scontro tra le parti ideologiche che ti si contrapponevano nella Guerra Fredda.
Il successo riportato quattro anni fa dai cosiddetti “Cinque Stelle” è stato però assai simile ad un altro risultato che – come fu detto – aveva “contribuito a fare la storia d’Italia”; quello ottenuto nel 1976 dal PCI di Enrico Berlinguer (il 34 % dei voti, 228 Deputati su 630, e 116 Senatori su 315) , che aveva reso possibile – nel quadro italiano – il tentativo di Aldo Moro di un “compromesso storico”. Il che ebbe a sua volta grandi ripercussioni a livello internazionale, alimentando in tutta l’Europa – ed in misura più ridotta anche fuori di essa – il fenomeno dell’Eurocomunismo, in cui lo stesso Gorbachev trovò, dieci anni più tardi, fonte di ispirazione per le sue riforme.
Il pietoso fallimento dei “grillini”
Ma la somiglianza tra le vicende elettorali del 1948 e del 1976 da un lato, e quella del 2018 dall’altro è solo quantitativa. E la differenza appare abissale soprattutto al livello del personale politico e dei leaders. I parlamentari del M5S erano infatti, tranne pochi casi, troppo incompetenti, provinciali e ridicoli per riuscire ad esprimere un qualsiasi progetto politico, ed abbastanza sciocchi da cadere, fin dal primo giorno a Montecitorio, nella rete di qualche sociologo che – autoproclamandosi “un intellettuale” – ne ha approfittato per farsi (pare) lautamente pagare e per spacciare presso di loro tutto il peggio dei luoghi comuni e delle frasi fatte della politica politicante.
Cosi, per quattro lunghi anni, il Parlamento della Repubblica Italiana è stato sfregiato ed offeso da quella stessa teppa che, al grido di “ onestà ! onestà !” non aveva esitato ad applaudire l’attuale Ministro degli Esteri che chiedeva la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica. E più tardi proclamare da un altro balcone che egli riteneva dovesse diventare “storico” di aver “abolito la miseria”, e che invece ha provocato soprattutto una serie di illeciti e di abusi, nonché una colossale distruzione di ricchezza.
E ciò nel contesto di tutta una serie di opportunistici contorcimenti che hanno consentito ai grillini di restare al governo prima con la destra, poi con una specie di sinistra, ed infine con il governo Draghi, tranne poi rivoltarglisi contro ed offrire alla destra l’occasione per batterlo.
Il principale “successo” dei grillini è stata però l’imbecille, e criminale, riduzione del numero dei Parlamentari. E che la drammatica situazione in cui, dopo questo “taglio”, si trovano oggi tanto la Camera quanto il Senato sia di fatto irreversibile sarebbe difficile da negare. Perché è difficile immaginare che qualsiasi corpo elettivo possa esprimere una maggioranza favorevole ad ammettere nuove forze, a recepire nel proprio seno nuove personalità rappresentative con cui condividere il potere detenuto.
Lo si è visto assai chiaramente nel corso delle contorte negoziazioni che – per la preparazione delle liste elettorali – si sono svolte tra i rappresentanti delle varie sigle politiche, ancor più all’interno delle singole formazioni. Nonché dall’attenzione con cui si è evitato qualsiasi cambiamento alla vigente legge elettorale, che garantisce una quasi perfetta blindatura dell’esistente, riducendo in maniera drastica ogni possibilità degli elettori di esprimere scelte che potrebbero cambiare, anche marginalmente, gli equilibri esistenti.
E dunque al M5S, ai cosiddetti “grillini”, che va imputata la responsabilità del fatto che le Camere che gli Italiani sono chiamati ad eleggere il 25 settembre siano ormai solo una versione dimidiata e paralizzata di un organo che in una democrazia dovrebbe svolere un ruolo vitale ed essenziale. E soprattutto la responsabilità di una così ristretta e rigida possibilità di scelta tra candidati
Che fare?
Per queste elezioni, tutti i sondaggi prevedono una vittoria delle destre ed in particolare del partito di Giorgia Meloni, che diverrebbe automaticamente Presidente del Consiglio. E’ una prospettiva che lascia ovviamente sgomenti, e che induce a sperare in una reazione del 41 per cento degli interrogati che non si è espresso, e dei molti che solo per rabbia contro la povertà dell’offerta partitica si sono detti a lei favorevoli. A sperare cioè che la tendenza (di cui solo alcuni pollsters tengono conto) dei sondaggi ad auto-smentirsi valga anche per la Meloni. Speranza che è più legittima in questa tornata elettorale di quanto non fosse nel 2018, dato che quello che ostenta la “fiamma tricolore” non è un movimento “nuovo” – tutt’altro – e, per di più, di un “sentire estremo, che offre una ancora più rabbiosa occasione di sfogo. E ciò tanto più in quanto la Meloni sarebbe a capo di una coalizione che avanza proposte programmatiche del tutto destabilizzanti dal punto di vista istituzionale, come il presidenzialismo, e da quello sociale, come la flat tax.
In questa prospettiva, di un’insufficienza delle destre a garantire un minimo di stabilità governativa, son emerse – ad appena qualche settimana dal voto – ipotesi di coalizioni “allargate” a sostegno di un governo delle destre. Il che non appare del tutto fantascientifico (o meglio, distopico) se si tiene conto dei precedenti governativi di Giuseppe Conte, nonché del fatto che i grillini sono così ottusi e servi dei luoghi comuni di volta in volta correnti da seguire le indicazioni, come ben ha scritto Antonio Scurati, di “personaggi pittoreschi il cui unico merito è il supino asservimento al potente di turno …., senza un progetto, un’identità, uno straccio di idea.“
Spazzare via dalla scena parlamentare italiana entrambe le fazioni in cui i grillini ci sono opportunisticamente divisi, sulla base di interessi, ambizioni e vanità puramente personali appare dunque come un dovere prioritario di tutti gli aventi diritto al voto, un dovere imposto dall’interesse del paese e dalla stessa personale dignità degli elettori.
Lo consiglierebbe anche l’ambiguità delle posizioni che, per ragioni puramente strumentali e di propaganda elettorale, i cosiddetti pentastellati hanno scelto in politica estera. Un allineamento di facciata, ma puramente esteriore, a favore del blocco di paesi che sostengono l’Ucraina, ma condito da una esplicita reticenza ad aiutare in risorse ed armi la parte che si dice di voler sostenere nella tragedia attualmente in atto in Europa centro-orientale. Un tema, quello della guerra in corso, che pur essendo importantissimo viene praticamente tenuto fuori dalla campagna elettorale dai partiti del centro destra. Ma che rischia da un momento all’altro di porsi in maniera altamente drammatica, ineludibile, e prevalente su ogni altra questione, tra le tante sfide cui i paesi d’Europa saranno chiamati a cimentarsi nei prossimi mesi.
Giuseppe Sacco