Giorgia Meloni sembra riuscire a mantenersi ferma solo nel non volersi dire “antifascista”. E probabilmente fa bene, visto che – se anche lo facesse – nessuno le crederebbe. Sul resto mostra una variabilità senza pari. Il viaggio a Pechino ha avuto l’effetto di vederla rigiocare il grande gioco internazionale, sia pure al prezzo di rimangiarsi molto di quanto perseguito in versione anti Pechino e filo americana.

C’è stato chi ha detto che solo gli stupidi non cambiano idea. Ed anche noi l’abbiamo sempre invitata ad assorbire l’arte del realismo. E questo a maggior ragione da quando è salita a Palazzo Chigi. Su talune cose, più che appelli come il nostro, hanno potuto la forza delle cose e quel l’intreccio d’interessi, che se non l’hanno direttamente sostenuta e finanziata, almeno, non ne hanno ostacolato l’ascesa. Il risultato lo si era già visto con la famigerata capovolta in occasione della tassazione sugli extra profitti delle banche. In Cina è giunta quella dell’auto elettrica.

Pensare che anche lei era partita lancia in resta per difendere le macchine a combustione e aveva imbastito tutta una polemica con l’Europa rea di accelerare troppo sulla transizione energetica ed ambientale. E anche tra i giornalisti suoi fiancheggiatori non erano mancati quelli che, per lungo tempo, fino alle ultime tornate elettorali, prefiguravano la possibilità di far passare la mano al Ministro dell’ambiente, Pichetto Fratin, reo di seguire una linea troppo equilibrata con cui si potrebbe provare, anche in materia di trasporto privato, a conciliare la transizione con la salvaguardia dei posti di lavoro.

Cambiare idea potrebbe essere necessario, ma tornando alla Cina sarebbe bene farlo con senso della misura. Mentre la nostra Giorgia, vittima della necessità di essere sempre sulla cresta dell’onda della comunicazione, si spinge sempre una virgola in più del necessario, giungendo addirittura a proporsi come “mediatrice” tra Cina ed Unione europea.

Lasciamo stare Giuseppe Conte, che a questo punto potrebbe portarla in tribunale per lo scippo del copyright (sul mercato italiano) in materia di Via della seta. Il punto è su come le riuscirà la conclusione di questa giravolta, che potrebbe farla apparire come una leader con gli occhi un po’ troppo “a mandorla”, proprio a quegli atlantisti cui ella ha fatto tanto per piacere. Ai quali, molto probabilmente, tutto questo affannarsi con i cinesi potrebbe non piacere proprio per niente. 

Al contrario di quanto avverrebbe, inaspettatamente, presso alcuni di quelli che hanno sinora denunciato come criminale nei confronti dell’Italia l’ignobile mercato tra regionalismo differenziato, premierato e disarmo della giustizia su cui si regge il nostro traballante e patetico governo di estrema destra. Perché, se davvero il viaggio della Meloni a Pechino producesse iniziative ed investimenti di natura innovativa, e in qualche modo compatibili con una politica industriale meno sfavorevole all’ambiente naturale – di cui l’auto elettrica potrebbe essere un esempio, ma neanche il migliore –, è verosimile che un sostegno specifico venga, alla nostra prima premier donna, anche da forze che hanno, e giustamente, sinora respinto i’intera impostazione politica del Governo di Giorgia Meloni.

Giancarlo Infante

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