Da almeno tre mesi a questa parte, giornalisti e commentatori politici di varia estrazione discutono dei rapporti interni alla maggioranza, piuttosto che delle relazioni tra quest’ultima e le opposizioni ed ancora della difficile, travagliata interlocuzione che corre tra Governo centrale e Regioni e, perfino, di ciò che succede tra l’una e l’altra di queste ultime.
Raramente il discorso cade sui singoli partiti dell’una o dell’altra parte, sulle loro dinamiche interne e sulle possibili evoluzioni che potrebbero intervenire in ciascuno di essi. Anche questo è un campo da esplorare, fin d’ora e per allora, per il momento, cioè, in cui, sperabilmente alla naturale scadenza della legislatura, si tornerà alle urne.
Il “parco macchine” di cui dispone il lotto dei concorrenti e’ all’altezza della sfida che ci si para davanti?
La questione è almeno dubbia. In buona sostanza, possiamo sperare che l’arco delle forze politiche, così come sono raffigurate oggi in Parlamento, sia in grado di dare piena espressività agli umori che, in questo nuovo inizio, vanno maturando nel Paese? Oppure rischiamo che la necessaria ricerca di categorie interpretative della vita civile e politica del tutto nuove che questo tempo, scosso dalla pandemia, esige, finisca per fermentare e ribollire nella pancia del Paese, senza trovare canali di rappresentanza adeguati, così da inacidire e corrompere le sue potenzialità, senza poterle mettere a frutto?
Un esame sommario e particolareggiato, almeno delle maggiori tra le forze in campo, decisamente non approda a conclusioni incoraggianti. La “tripartizione” del PD – con le costole di Leu da una parte e di Italia Viva dall’altra – non è che la plastica, ovvia e fisiologica rappresentazione dell’errore originario di chi ha ritenuto di poter fondere, nello stesso contenitore partitico, culture profondamente diverse tra loro alla radice, cioè a livello dei presupposti antropologici della loro cultura di riferimento.
La politica è caotica, confusa, tormentata solo se osservata in superficie. Esaminata a fondo, mostra una struttura geometrica insospettabile, cosicché quando si sbaglia l’impostazione di metodo, a prescindere dai contenuti, cioè si maltrattano i criteri fondamentali, se ne pagano inevitabilmente le conseguenze. La ” fusione”, tesa a negare o nascondere, le differenze tra i contraenti, si è risolta in una uniformità sterile ed improduttiva, laddove un rapporto concepito, tra le stesse forze, in termini di coalizione, dunque capace di assumere le differenze come risorsa piuttosto che come impedimento, avrebbe consentito di trasporre nella cosiddetta “seconda Repubblica” la parte più virtuosa dell’esperienze idealmente ” popolare” , sia pure distribuita su due versanti alternativi, dei primi decenni del dopoguerra.
Per quanto riguarda il “Movimento 5 stelle”, per darsene conto, non bisogna mai dimenticare che nasce dal cosiddetto “vaffa…”. Una forza politica, per quanto possa e debba evolvere nel tempo, è pur sempre lo sviluppo del suo marchio d’origine. Una forza basata sull’idea stupida o almeno ingenua della cosiddetta “decrescita felice”, propalata con toni isterici; accompagnata da una sorta di sublimazione mistica della tecnica; sostenuta da un’idea paranoide del “digitale” che finisce per approdare ad una vischiosa, indistinta, magmatica “entità” sovraordinata alla libertà della persona, talché gli stessi parlamentari sono ridotti al ruolo di “portavoce”, megafoni di una verità che li trascende, distillata negli alambicchi di algoritmi di cui non sanno nulla; intrisa di quella viscida e farisaica presunzione di superiorità morale che è ingrediente necessario di tutte le minestre insipide.
In quanto alla Lega, vive una contraddizione che farebbe bene a risolvere se intende corrispondere al ruolo di governo che il consenso popolare le attribuisce in molte realtà locali, a cominciare dalle maggiori Regioni del Nord.
Deve scegliere tra la deriva reazionaria, lo spirito sovranista ed antieuropeo, i toni scalmanati e sconclusionati di una becera rincorsa a destra che Salvini le sta imponendo ed il ruolo di fatto popolare, spesso moderato, espressione di un radicamento territoriale che va effettivamente riconosciuto che ha maturato nel tempo. La Lega continuerebbe ad essere pur sempre la Lega e, per quanto ci riguarda, una forza alternativa alla nostra concezione di fondo, ma concorrerebbe ad offrire un equilibrio complessivamente più ragionevole all’intero impianto del nostro sistema politico-istituzionale.
Certo, bisogna accontentarsi di quel che passa il convento. Sarebbe un esercizio astratto immaginare oggi l’ideal-tipo di un sistema politico in cui la sinistra torni a fare il suo mestiere, senza sbandamenti radicaleggianti che nulla hanno a che vedere con la sua vocazione popolare; la destra assuma una connotazione liberale ed interpreti un ruolo di conservazione illuminata; un’altra forza sappia interpretare la progressività ponderata – misurata sulla maturazione di una partecipazione e di un consenso consapevole del cittadino agli indirizzi che la politica propone – dei processi in corso.
Ma intanto, e fuori dall’incanto di un sogno, i cattolici che militano in queste forze, dove contano come il due di picche quando la briscola è coppe, come la mettono?
In ogni caso, dato per scontato che il pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici è un dato acquisito ed incontrovertibile, da assumere come valore piuttosto che come remora, non è giunto il tempo – pur entro tale quadro e, dunque, senza pensare a quella unità indistinta di tutti i cattolici che né Sturzo, né De Gasperi perseguirono – di mettere in campo una forza che schiettamente proponga al Paese nel suo complesso, un progetto di trasformazione, come recita il Manifesto di Politica Insieme ( CLICCA QUI ), che si rifaccia apertamente ad una visione cristiana dell’uomo, della vita e della storia?
Domenico Galbiati