L’assessore Gallera è stato costretto ad andarsene: politicamente, ha pagato lui per tutti il dramma sanitario che si vive da mesi in Lombardia, a causa dello tsunami Sars-cov2.
Il sistema sanitario lombardo aveva nel comparto territoriale e socio-sanitario rilevanti criticità da anni: la pandemia ha reso brutalmente e drammaticamente evidente e non più camuffabile ciò che era noto da molti anni, anche ai semplici cittadini lombardi.
Il sistema socio-sanitario lombardo plasmato dalla coraggiosa riforma del governatore Formigoni ha consentito lo sviluppo di un’organizzazione ospedaliera di assoluto livello clinico e scientifico, con alcune punte di eccellenza mondiale: chi non riconosce questa evidenza resa possibile dalla intuizione di scorporare gli ospedali dalla gestione complessiva delle attività socio-sanitarie territoriali, dai grandi investimenti strutturali e tecnologici messi in campo, dalla capacità di far interagire virtuosamente la ricerca con la clinica, è accecato da un furore ideologico sbagliato.
Cosa non funzionava e non funziona nel sistema sanitario lombardo? La gestione della cronicità e delle fragilità ossia il mondo degli anziani, della salute mentale, dei disabili e dell’età evolutiva, la prevenzione e la promozione della salute (ridicolo immaginare che bastino campagne promozionali pubblicitarie…) in particolare nelle fasce di popolazione più fragili: periferie, povertà sociale, marginalità.
Una sanità quindi a due facce: grandi eccellenze e una miriade di “scarti”. E si sa che gli “scarti” contano sempre poco nelle dinamiche sociali.
All’origine dell’errore, un concetto antropologico sbagliato, se assolutizzato, come è stato fatto: la salute – ossia lo “star bene” – di una persona, non si ottiene o si preserva solo con la tecno-scienza ospedaliera, con una somma di virtuose azioni tecnologicamente fondate, di farmaci e “tools” di avanguardia, di tempestività di ordinate sequenze di intervento. Ci sono “vulnus” alla salute delle persone che necessitano del supporto della tecnoscienza ospedaliera (e in questi frangenti la sanità lombarda è tutt’ora di eccellenza), ma il vero problema di salute pubblica è la condizione di cronicità pluri-patologica con cui molti cittadini devono convivere, la fragilità costitutiva o acquisita che impedisce a molti di non essere in grado di gestire la propria condizione di malattia e di isolamento e malessere.
La salute, cioè lo star bene, è una condizione dinamica che è anche relazione, integrazione nei contesti, senso di sicurezza derivante dalla percezione concreta di poter contare sull’aiuto competente di un sistema che si sforza di ascoltare le esigenze di chi soffre e non pretende di pre-confezionare risposte standardizzate. In verità, l’ossessione di regolare tutto con PDTA (Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali) , e in futuro con algoritmi di calcolo in grado di pre-definire cosa serve a ciascuno di noi, non è certo imputabile alla riforma Formigoni: è una risposta, al solito goffa e burocratica, per arginare una domanda di prestazioni disordinata tumultuosa, innescata da un concetto di salute consumistico, da market della salute, che la riforma lombarda ha contribuito a estremizzare.
Altro caposaldo della riforma lombarda è stata la equiparazione tra erogatori pubblici – cioè statali – e privati: il termine “erogatore” usato ripetutamente negli atti regionali, esprime con nitore la logica consumistica che sta alla base della organizzazione lombarda.
La sinistra radical-chic, con “verve talebana”, si scaglia in continuazione contro la sanità privata e accusa ancora Formigoni, Cl, i lombardi di questo fatto ritenuto la causa di tutti i problemi: analisi assai superficiale e scioccamente ideologica.
Curiosamente, gli stessi radical chic, si dimenticano che l’origine di questa deriva è scritta nel decreto 502 del 1992, legge voluta e promossa dall’allora ministro De Lorenzo del governo presieduto dall’on Amato: caposaldo di quella riforma è stato lo smantellamento della legge 833 istitutiva del SSN attraverso l’introduzione, perversa, del concetto di azienda in sanità.
L’aziendalizzazione non è stata introdotta per dare un modello organizzativo un po’ più efficiente ad un SSN malversato dalla spudorata invadenza politica degli anni 90, ma quale logica evoluzione di un concetto “mercificato” di salute, derivato dalle logiche culturali nord-americane dove, ancora oggi, la salute è un “bene commerciale assicurativo”, acquisibile nei limiti delle disponibilità economiche del singolo cittadino, surrettiziamente introdotto in una cultura, quella italiana, dove la salute era un “bonum”, ossia un “bene costituzionalmente rilevante”.
Il disastro si sarebbe poi definitivamente consumato con l’introduzione dei sistemi di rimborso a DRG per i ricoveri ospedalieri, e con l’idea che la sanità territoriale non fosse nient’altro che la somma di “prestazioni ambulatoriali” da “acquistare su prescrizione”, quasi fossero confezioni di farmaci: e da anni la polemica è solo sui tempi di attesa, sui ticket e sulla “querelle consumistica” tra i tempi immediati negli “store privati” e i “tempi lunghi” dei supermarket statali (con tanto di negozi nelle hall di ingresso…)
Se la salute è un bene commerciale, come introdotto nel nostro ordinamento dal decreto legislativo 502, cui la controriforma Bindi (legge 229) non ha affatto posto rimedio, la riforma lombarda è stata una geniale e efficace conseguente attuazione logica, anche nell’equiparare pubblico – cioè statale – e privato: scandalizzarsi per questo, senza vedere la vera origine di questa deriva, è pura ipocrisia culturale e politica (un tale anni fa affermava che quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito…)
Il grave errore del governatore Formigoni, è stato semmai quello di non volere e sapere distinguere tra “privato profit” e “privato no-profit”, oggi “terzo settore” : errore tanto più imperdonabile perché proprio lui veniva da una esperienza personale e del suo movimento di appartenenza, dove doveva essere ben chiara la differenza tra un agire a servizio del bene comune, pur all’interno di logiche di sostenibilità, e un agire solo per remunerare il capitale dei soci investitori .
O forse anche nel movimento si era smarrito il sano principio che i “mercanti” vanno cacciati dal tempio: e la cura della persona, specie la più fragile, non può essere mercanteggiata: mai. Se si deroga dal principio, prima o poi si cade preda delle lusinghe “mercantili” (come è puntualmente avvenuto).
La diffusione del principio che la salute è un “bene privato” sottoposto alle leggi del mercato, si è largamente diffusa nel sistema sanitario nazionale e anche nella popolazione: le aziende ospedaliere pubbliche in cosa sono diverse da quelle private, a parte una minore efficienza? Gli indicatori sono tutti rigorosamente econometrici (ce ne fosse qualcuno che misura il benessere dei cittadini!), i dirigenti sanitari sono premiati –anche meno di quanto meritano –solo quando raggiungono obiettivi economici o di iper-produttività prestazionale (le famose liste d’attesa); anche nelle aziende ospedaliere pubbliche, forse con minore sistematicità, si indirizzano le terapie in base alla convenienza economica. I contratti con “premi di produzione” o di “risultato” che appaiono proprio fuori luogo, almeno come terminologia. E anche l’organizzazione è “tragicamente” privatistica, ivi compreso il divieto di parola imposto ai dirigenti medici pena la accusa di “danno all’immagine aziendale”
Danno aziendale? Ma non è lo stato italiano, ossia noi cittadini, il proprietario? Tant’è, nel pieno dell’orgia populista e sovranista, il modello ormai è quello “cinese”: tutti zitti e uno solo che comanda.
Ciò che ancora differisce tra le aziende profit e quelle statali è che nelle prime tutti sono convintamente consapevoli che stanno agendo una attività economica finalizzata a remunerare il capitale ( e in base al rango, tutti cercano di avere il loro utile economico) , nelle seconde è a volte acuto il conflitto in chi ha ancora come anelito il servizio alle persone (cioè un servizio pubblico) e si vede sottoposto a logiche aziendalistiche profit, governate dalla solita partitocrazia, aggravate da un surplus di asfissiante formalismo burocratico.
La riforma Maroni ha tentato da introdurre dei correttivi alla sanità lombarda, rinforzando la medicina territoriale con principi e finalità assolutamente condivisibili.
Peccato che non avendo minimamente messo in discussione il “moloch economicistico” motore dell’agire sanitario, i risultati sono stati disastrosamente fallimentari.
Qualche esempio: come può una ATS (Agenzia di Tutela della Salute) agire le sue finalità se i rapporti con i medici di medicina generale rimangono in capo alla regione, se non ha possibilità concrete di scelte- pur all’interno di un unico quadro normativo- se i finanziamenti per investimenti per le medicina territoriale non sono stati previsti e tantomeno delegati, se il potere assoluto dei direttori generali delle aziende ospedaliere è stato addirittura rafforzato?
La vera colpa dell’ex assessore Gallera è nell’aver ciecamente creduto ad un a riforma “farlocca” della gestione della cronicità, costruita sulla esasperazione del modello consumistico sanitario, dove la “summa teologica” del progetto è la gestione della patologia intesa come somma di una serie di visite e esami pre-definiti in base alla patologia di base e nel relegare il ruolo del “clinical manager” ad una sorta di Centro prenotazioni personalizzato: ascolto, personalizzazione, integrazione, accompagnamento …vocaboli sconosciuti…ovviamente perché non “temporizzabili” e quindi monetizzabili.
E il “gestore” (!??: nomen – omen) può avere anche migliaia di cittadini in carico, sempre che il cittadino accetti di farsi gestire per questa sua patologia dal sistema.
La riforma Maroni, autorizzata a termine dal Ministero, è scaduta lo scorso 31 dicembre: AGENAS ha già provveduto ad inviare “suggerimenti” di riforma.
Rimedi peggiori del problema cui si vuol porre mano: sostanzialmente una “venetizzazione” della sanità lombarda con l’introduzione della “azienda zero” – proprio come nelle regioni a trazione leghista – cui delegare tutto il delegabile (sul piano economico e gestionale), abolizione di tutte le ATS e rafforzamento delle aziende ospedaliere cui viene affidato tutto il governo anche della medicina territoriale, magari assoggettando i “riottosi medici di base” al “polso” di autorevoli Direttori Generali.
Il tutto sempre all’interno di rigidi confini aziendalistici che anzi si estendono ancora di più! E la struttura dirigenziale regionale? Completamente esautorata: la sanità ai tecnici, no?
Aspettiamo con trepidazione i nuovi algoritmi di calcolo che decideranno in base a parametri biologici personalizzati, quando e quali esami fare, con che frequenza, e magari ci multeranno pure se scopriranno che non prenderemo con regolarità tutte le pastiglie prescritte o non eseguiremo i controlli imposti: nell’attesa ci accontenteremo di sempre più persavisi PDTA per tutte le patologie. E guai a non tenerne conto!
Con una chicca: i grandi gruppi privati ospedalieri contratteranno direttamente con la Regione budget e volumi di produzione (rigorosamente LEA e PDTA compatibili) le piccole realtà locali, magari socio-sanitarie, magari del terzo settore, dovranno mendicare budget e possibilità di agire, rigorosamente come “terzisti”, con i potenti direttori generali ospedalieri, tutti di stretta osservanza e sinistramente vigilati dalla “azienda zero”.
E il territorio? I distretti saranno rafforzati concedendo un diritto di tribuna agli amministratori locali: ma senza poter mettere mano al bilancio, senza poter giudicare i Direttori generali, senza poter influire su nessuna scelta, cosa mai potranno fare? Repubblica popolare cinese o repubblica democratica italiana?
Cara Lady Moratti: confidiamo nella sua competenza politica e umana, affinché sappia mantenere e valorizzare quanto di buono è stato fatto con la riforma Formigoni, cambi radicalmente la governance della sanità lombarda (la salute è un bene di tutti!), ridisegni da zero la medicina territoriale (e lasci perdere l’azienda “zero” sinistra anche nel nome…), sa bene come fragilità e cronicità non possono essere gestite con modelli e algoritmi pre-definiti (SANPA insegna), si intesti la battaglia politica per riportare la salute fuori dal perimetro commerciale (gestire il benessere dei disabili e delle loro famiglie o degli anziani o di chi soffre di malattie degenerative o di disturbi psichici è molto diverso dal gestire una banca o una web company) e non abbia paura di mettere al centro la Persona, specie la più fragile, e il territorio (ossia la comunità locale), sfidando le lobbies – anche tecniche e manageriali – statali o private che siano. I tecnici sono importantissimi, ma la gestione della cosa pubblica necessita di una visione politica, che non sempre tecnici- pur bravissimi – hanno. Ha una grande occasione.
Noi stiamo dalla parte di Ippocrate: contiamo che anche lei sia dalla parte di una medicina libera e indipendente a servizio della gente. (A proposito: avvisa lei il ministro Speranza che forse la agenzia del suo ministero (Agenas) è assai poco in linea con le sue idee politiche dichiarate? ).
Massimo Molteni