I keynesiani gridano vittoria a Washington. Dopo un piano da 1.900 miliardi di dollari per sostenere l’economia colpita dal Covid -19, Joe Biden ha annunciato un piano di investimenti nelle infrastrutture il cui volume dovrebbe raggiungere il 2000 miliardi di dollari nell’arco di otto anni; una interessante prospettiva temporale se si tiene conto che molti sono convinti del fatto che l’anziano presidente degli Stati Uniti non correrà, tra quattro anni, per la rielezione alla Casa Bianca. Ma soprattutto un piano di interventi di dimensioni impressionanti, pari all’un per cento del PIL americano all’anno.
Biden sembra mirare molto alto. Il celebre economista James Galbraith vede nel suo comportamento una svolta radicale; un segno incoraggiante che indica come sia stata finalmente appresa la lezione dei molti fallimenti in materia di politica economica, delle precedenti amministrazioni, indipendentemente dalla loro etichettatura politica. Dopo decenni in cui si è pensato che, se la disoccupazione fosse scesa al disotto di un certo limite, ci si sarebbe trovati di fronte a pericolosi fenomeni inflazionistici, l’anziano presidente americano si è dimostrato capace di cogliere audacemente la sfida del momento per una grande politica espansiva, come non avevamo saputo fare né Clinton né Obama.
Ma non per questo l’illustre accademico dell’Università di Austin sembra approvare in toto la politica, in particolare quella estera, di un presidente che – accolto al momento della sua elezione con grande sollievo da più della metà dell’opinione pubblica, e soprattutto dall’opinione che ha “diritto” ad esprimersi sui media – ha cominciato di recente a sollevare qualche preoccupazione e parecchio nervosismo. In primo luogo con la definizione di Putin come ”assassino”, una strana maniera di favorire il successo un incontro al vertice proposto appena qualche giorno più tardi……
Nella situazione attuale, ha detto infatti Galbraith, il solo pericolo di inflazione, viene da una possibile guerra commerciale con la Cina la Russia. Un tale evento avrebbe come prima e più grave conseguenza quella di sconvolgere le catene del valore che legano tra loro le principali regioni collocate al centro del sistema globale, la parte più ricca del pianeta. Per non parlare poi di una guerra guerreggiata, possibilità sulla quale Galbraith non ha espresso esplicitamente e pubblicamente una valutazione politica, ma che sembra temere come un’ipotesi purtroppo non irrealistica, ed assolutamente disastrosa.
Ma non è questa l’opinione di Biden, così come non è quella del suo segretario di Stato Anthony Blinken, il quale ha attaccato assai duramente anche la Germania, per via del gasdotto che dovrebbe aumentare in misura sostanziale i suoi acquisti di idrocarburi dalla Russia. Come ha scritto il grande storico economico Adam Tooze, molti dei più alti esponenti dell’Amministrazione Biden sono “ispirati senza se e senza ma all’era del dominio unipolare” degli Stati Uniti. “Per dirla con le parole dello stesso Biden, – scrive Tooze – la Cina vorrebbe diventare il numero uno, ma questo non accadrà finché lui sarà di guardia. E perché? Perché l’economia americana crescerà. Il programma infrastrutturale annunciato da Biden il 31 marzo è finalizzato, ‘come i grandi progetti del passato’ ad unificare e mobilitare il paese per far fronte alle grandi sfide del nostro tempo: la crisi ambientale e le ambizioni di una Cina autoritaria”.
La gigantesca spesa pubblica annunciata da Biden sarebbe dunque parte di un unico disegno, che si inquadra nel rinnovato clima di guerra fredda. Senza un fortissimo rilancio dei consumi interni, nessuna autonoma riconquista di una posizione egemonica nell’economia mondiale sarebbe possibile oggi che il mercato di consumo più grande del mondo è ormai quello della Repubblica Popolare Cinese.
Non c’è dunque contraddizione tra la politica economica del nuovo presidente democratico e la sua politica estera. Con la sua proposta – fortemente contrastata negli ambienti imprenditoriali – di portare la paga oraria minima da 7 dollari e 25 a 15 dollari egli si candida ad essere il nuovo Roosevelt. Ed è giunto a raccogliere, se non il consenso del Congresso, il sostegno esplicito di oltre il 62% degli americani.
Ma la rassomiglianza con l’uomo del New Deal, il Presidente che portò gli Stati Uniti fuori dalla grande crisi non si ferma qui. Perché Biden incomincia ormai pericolosamente ad assomigliare anche al Capo di Stato che, imponendo a Tokyo l’embargo dei rifornimenti petroliferi, non lasciò ai Giapponesi nessuna scelta se non l’attacco immediato. E trasformare in realtà la facile previsione dello stesso presidente americano, che – al termine della riunione in cui era stata presa quella fatidica decisione – aveva commentato: “tra una settimana saremo in guerra con il Giappone.”
Naturalmente, non ci sono automatismi nella storia. Né essa si ripete due volte allo stesso modo. Ed infatti esistono forti elementi di diversità tra la sfida che veniva allora dall’Asia e quella che si profila oggi, e per il futuro prossimo. In primo luogo perché le odierne ambizioni della Cina sembrano avere caratteristiche assai diverse, meno definite e più difficili da penetrare che non quelle del Giappone di allora, così manifestamente derivate dagli estremismi nazionalisti che già una volta avevano portato l’Europa alla catastrofe. E poi, perché – a differenza della prima metà del ventesimo secolo – il gioco delle grandi potenze militari conosce al presente limiti imposti dalla natura apocalittica delle armi a disposizione di entrambe le parti.
C’è tuttavia da aggiungere, che l’Amministrazione Biden è anche chiamata a rispondere alla sfida ambientale; sfida di cui non si aveva consapevolezza ai tempi di Roosevelt, e che avreste più facile una politica di massicci investimenti in infrastrutture. Oggi non è più così, ed ogni potenziamento del meccanismo dell’economia americana rischia di accrescere il costo che tale meccanismo impone alla natura. Mentre è evidente che la battaglia per la salvezza del pianeta non può essere vinta senza la collaborazione della Cina, il paese che contende gli Stati Uniti il ruolo di primo inquinatore del pianeta. Una interdipendenza ancora più forte di quella che appare nell’ipotesi di una rivalità non guerreggiata in campo economico, dove pure nessuna egemonia Americana sarebbe possibile senza l’accesso al primo mercato di consumo del mondo, che è appunto quello cinese.
La battaglia per la salvezza dell’ambiente e del pianeta va in realtà combattuta soprattutto sul fronte interno, in un contesto culturale, quello degli Stati Uniti, in cui appare assai difficile introdurre comportamenti più rispettosi dell’ambiente. Ogni politica di rilancio dell’economia presenta in questo contesto un risvolto negativo, specie se si considera il modello di sviluppo americano. Esso infatti appare sin dalle origini estremamente distruttivo, come ben esemplificato dallo sterminio dei bisonti per esportarne le pelli.
Ancora oggi questa distruzione continua tanto negli eccessivi consumi di carne, e quindi nell’eccessiva attività di allevamento, responsabile di gravi immissioni nell’ambiente di gas a effetto serra, quanto nell’overgrazing, il sovra-sfruttamento dei pascoli nelle aride pianure a ovest del Mississippi, e poi per l’uso massiccio dei prodotti chimici agricoltura, e degli ormoni femminili all’allevamento. In realtà, anche guardando ai consumi si giunge talora pensare che il senso della vita in America consista nell’acquisizione e nella distruzione immediata di oggetti di bassa qualità e di basso costo. Appare insomma fuor di dubbio che su questo fronte l’amministrazione Biden sarà impegnata in una complessa conciliazione tra azione puramente espansiva E protezione dell’ambiente.
E l’Europa in tutto questo? Ancora una volta, soprattutto se adesso si guarda con gli occhi dell’America keynesiana, appare evidente quanto essa sia divisa, ed animata da sentimenti ed interessi contrastanti. Da un lato – è stato fatto rilevare nella stampa e nei media francesi – c’è l’aspettativa che questo enorme flusso di spesa pubblica possa stimolare esportazioni europee non solo a partire da paesi come la Germania ma anche come il nostro, come l’Italia. Dall’altro lato non ci si può nascondere l’evidente rischio di restare fortemente distaccati dai due paesi, l’America e la Cina, oggi in competizione per la leadership economica mondiale.
Messo in cantiere sotto l’ eterno impulso restrittivo della Germania, che portò alla riduzione dei mille miliardi di Euro originariamente previsti a soli 750, il “Next Generation EU” mostra appieno il suo volto di programma di emergenza. Con un volume totale di spesa che giunge appena al 5,5% del PIL complessivo dei 27 attuali membri della UE: “gli Europei, ha detto Galbraith, mi sembrano gli ultimi al mondo a rendersi conto della gravità della situazione. La Cina lo ha fatto, gli Stati Uniti cominciano a farlo… ma in Europa non vedo nessuna mobilitazione. Il problema viene dalle istituzioni, ma è anche un problema ideologico, dato che in Europa domina una sorta di ordo-liberalismo, che assegna allo Stato soltanto il compito di stabilire e garantire un quadro normativo che permetta la concorrenza libera e non distorta tra soggetti privati.”
Giuseppe Sacco