Se non poteva essere considerato un vero e proprio desiderio di pace, cioè parte di quel tipo di aspirazioni che discendono da un impegno etico, è indubbio che fosse stanchezza di guerre ininterrotte.
Certo! Si era trattato di guerre lontane dal territorio nazionale, ma di guerre che s’erano trascinate per diciassette anni, come quella in Iraq, o addirittura per venti, come quella afghana, cui Biden non riesce a porre termine. E si era trattato di guerre in cui erano stati coinvolti, una generazione dopo l’altra, milioni e milioni di giovani americani.
E ancora. Si era indubbiamente trattato di guerre combattute senza che fosse imposta la coscrizione obbligatoria, tranne che nella prima metà degli anni 70, quando la sua introduzione portò alla rivolta delle università, e in definitiva alla caduta di Nixon. Però di ragioni morali per volere la pace ce ne erano sempre state, dato che i “volontari” erano nella stragrande maggioranza esponenti delle classi più povere della popolazione statunitense, che non avevano nessuna altra possibilità di trovare un lavoro: tanto che più della metà dei combattenti in Vietnam sono stati afroamericani. Così come afroamericani saranno più tardi, quando appunto fu imposta la coscrizione, quelli che “approfittarono” in cambio di quattro soldi della possibilità di andare in guerra al posto in un richiamato che si poteva permettere di pagarli.
Era insomma stata una comprensibile stanchezza di guerre, quella che aveva fortemente contribuito nel 2016 alla vittoria elettorale del predecessore di Biden. Non che ne fosse stata l’unico fattore; ma ne era stata un fattore di peso comparabile alla distruzione di posti di lavoro causata dal trasferimento in Cina e in altri paesi dai bassi salari di molte attività produttive. E se molti reduci erano finiti, come molti disoccupati di mezza età, a fare i barboni – stracci umani che l’America protestante considera come non degni della Grazia divina e che, considerandosi essi stessi come tali, notoriamente non si curano di registrarsi e di andare a votare – è un dato innegabile, perché statisticamente rilevato, che per Trump hanno votato quelli che erano ad essi vicini, per legami familiari, per residenza, o per condizione sociale, cioè coloro che temevano di fare la stessa fine.
Da Biden candidato a Biden Presidente
Di tutto ciò, il candidato democratico Joe Biden è apparso fortemente consapevole durante tutta la campagna elettorale che lo ha portato alla Casa Bianca. Così come oggi, da Presidente, egli non può non sapere di dovere in misura non trascurabile la eminente posizione che ormai occupa anche al fatto che Trump, abbandonando parzialmente l’immagine da lui offerta come candidato, aveva – da Presidente – da un lato sottovalutato la pandemia che faceva strage proprio tra i più deboli e dall’altro, nel corso dei quattro anni trascorsi alla Casa Bianca, sempre più inquinato con toni aggressivi e militareschi la propria retorica anti-cinese.
Per una larga parte dell’elettorato di Biden, le sue recenti scelte in politica estera sono dunque state ragione di sorpresa, di delusione e di malumori rapidamente crescenti; cui Biden ha ultimamente cercato di porre rimedio lanciando una proposta – nebulosa, ma di tono socialisteggiante – sulla cancellazione della proprietà intellettuale delle grandi aziende farmaceutiche nel campo dei vaccini anti-Covid. Una mossa questa gli ha procurato facili applausi in tutti paesi – tranne che in Germania -, ma che non può bastare a fare chiarezza sulla posizione politica della nuova amministrazione americana.
Associare alle imponenti decisioni prese in materia di spesa pubblica con i bellicosi atteggiamenti assunti in politica estera finirà – se questi ultimi verranno confermati – per rivelarsi inevitabilmente contraddittorio con l’obiettivo di rilanciare il ruolo economico degli Stati Uniti nel mondo. E di rilanciarlo, tale ruolo, non alla maniera di Trump, che ipotizzava una crescita introversa, fondata su produzioni e consumi nazionali, e caratterizzata da forti tentazioni più isolazioniste che protezionistiche; bensì di rilancialo attraverso un massiccio sforzo di ricostruzione e ammodernamento del sistema dei servizi pubblici e della macchina produttiva americana. Il che sarebbe chiaramente preparatorio ad un ritorno degli Stati Uniti alla leadership di un sistema economico globale, nel quadro di una sempre più fitta rete transnazionale di catene del valore e di una conseguente interdipendenza economica: tutte caratteristiche che dovrebbero logicamente rendere assai poco conveniente ogni conflitto tra le potenze maggiori.
Complementarità scientifico-economica
Nel mondo del ventunesimo secolo, e ancora più precisamente nei decenni che faranno seguito alla pandemia in atto, e all’inevitabile crisi economica che essa ha già innescato, un tale disegno non potrà infatti essere realizzato se non attraverso rapporti pacifici ed intensi tra Washington e Pechino, cioè tra gli Stati Uniti, paese che una fortissima ondata di investimenti pubblici tende a rilanciare come produttore ed innovatore soprattutto nel campo delle future tecnologie orientate alla salvaguardia dell’ambiente, e l’altro gigante economico, la Cina, che da un lato è ormai il primo mercato di consumo al mondo, e dall’altro è ancora il principale inquinatore mondiale. Tra due grandi potenze, insomma, che appaiono complementari, e che possono trarre entrambe forte vantaggio dalla collaborazione reciproca.
Una complementarità che non può essere né negata, né trascurata, quella tra i due giganti del nostro pianeta nell’età contemporanea; rafforzata dall’attuale quasi-supremazia cinese nel campo delle telecomunicazioni e in taluni settori dell’elettronica, e da quella americana non solo in campo militare ma anche nel settore delle biotecnologie. Un ambito scientifico-tecnico, quest’ultimo, la cui importanza presente, ed ancora di più quella futura, è stata clamorosamente, anche se brutalmente, messa in luce, nell’ultimo anno, alla terribile pandemia del Covid-19.
E’ sotto gli occhi di tutti come l’Amministrazione Biden esiti a prendere atto di questa realtà, della inevitabilità della convivenza e della collaborazione con la potenza economica cinese, e a comportarsi di conseguenza. Sotto gli occhi tutti è anzi come la nuova Presidenza americana si comporti in maniera opposta a quella che l’elettorato democratico e l’opinione pubblica internazionale si sarebbero aspettati. Ma altrettanto evidente è quali siano le ragioni di tanto perniciosa esitazione: l’esiguità della maggioranza di cui dispongono, al Congresso, le forze pro-Biden, ed il rischio che una vittoria repubblicana nel 2022, alle elezioni di medio termine, crei una situazione a lui ancora più sfavorevole, ed in grado di vanificare tutti i propositi di rimettere in sesto l’economia e la società americana. Cioè di creare una condizione che consenta – una volta fattane la scelta politica – di fruttuosamente confrontarsi, superando l’attuale situazione di generale emergenza, a parità di forze con la Cina.
Una debolezza strutturale
Il rischio che l’amministrazione Biden si trovi, tra un anno e mezzo, priva della maggioranza parlamentare necessaria per condurre la politica di rilancio così aggressivamente avviata in questi primi mesi del 2021, rappresenta un pericolo serio e verosimile; di cui però il Presidente non può essere ritenuto responsabile. Il pericolo deriva infatti da una debolezza strutturale del sistema politico-istituzionale americano, il quale prevede che ogni due anni vengano rinnovati un terzo dei Senatori e l’intera Camera dei Rappresentanti. Il che inevitabilmente crea un clima di permanente campagna elettorale.
È la necessità di fare fronte a tale rischio che spiega la contraddittorietà della politica estera di Biden con la sua politica economica. Egli, e i suoi consiglieri, pensano evidentemente che l’unico modo per raccogliere attorno al nuovo Presidente degli Stati Uniti il consenso di un corpo elettorale presso il quale – come essi ben sanno – le ideologie non hanno alcun ruolo, sia quello di presentarlo come il capo di un’America impegnata in una sfida mortale contro un nemico esterno; un nemico che presenta per di più il vantaggio, da un punto di vista propagandistico, di assomigliare tale e quale a quello della Guerra Fredda: la coppia formata da Russia e Cina.
Questa scelta tattica presenta per un inconveniente. Per non lasciare dubbi su questa lettura propagandistico-elettorale della realtà internazionale, deve proiettare l’immagine di un Presidente che – quasi fosse Capitan America – sta cercando di resistere a una ipotetica sfida di Pechino da una posizione di forza e con il sostegno degli alleati europei. E per questo l’Amministrazione Biden ha bisogno che i paesi del Vecchio Continentea si schierino, almeno in apparenza ed almeno per i mesi che corrono da qui alla data delle elezioni, sulle stesse posizioni dell’America, o su posizioni analoghe.
Quando Washington ha bisogno dell’’Europa
Il Segretario di Stato Blinken, cui tocca il compito di far assumere agli Europei un bellicoso atteggiamento anti-russo e anti-cinese, si scontra però con una difficoltà obiettiva. Difficoltà derivante dal fatto che, nella Guerra Fredda autentica, quella degli anni 50 e dei primi anni 60, gli Europei, e in particolare i Tedeschi, avevano bisogno – per loro propria sicurezza militare – di essere politicamente sulla stessa lunghezza d’onda degli Stati Uniti. Oggi, invece, per la “nuova Guerra Fredda”, una volta che non ci sono più regimi comunisti né in Cina né in Russia, e che il controllo del territorio da parte dell’esercito russo giunge solo a 300 miglia ad ovest di Mosca, gli europei si sentono molto più sicuri, mentre è l’America ad avere bisogno ad aver bisogno di loro. E a dover spingere, per ragioni di politica interna, che gli Europei si mostrino allineati con Washington.
Da molte parti è stato ovviamente rilevato che questa scelta tattica di Biden, finalizzata a non perdere il già striminzito consenso del Parlamento del proprio paese, rischia di avere conseguenze di diversa natura in campo internazionale, cioé conseguenze non più tattiche, bensì di natura strategica. E possono sottolineare che la prima è più evidente di queste conseguenze strategiche – il riavvicinamento tra Cina e Russia, che pure hanno storiche ed irrisolte pendenze territoriali – si è già verificata. Mentre sul fronte mediorientale, nonostante un timido tentativo di Biden di porre riparo ai danni provocati dalla rozzezza di Trump in politica internazionale, il rinnovato clima di guerra fredda ha favorito, tra Teheran e Pechino, una comunanza di interessi ed un avvicinamento che non era in alcun modo inevitabile, e che potrebbe avere serie conseguenze in un orizzonte temporale molto più lungo di quello della presidenza Biden.
Se i molti presunti, ed auto-proclamatisi “esperti” italiani di questioni “geopolitiche”, scimmiottando quel che accade in America e in Europa, fanno quello che possono per occultare questa realtà, questo però non è il caso di alcune personalità che hanno sufficiente autorevolezza ed indipendenza per andare contro il conformismo prevalente. E non è sorprendente che tra questi si trovi in primo luogo Henry Kissinger, che ha a più riprese parlato del rischio che questo comportamento, che si vorrebbe furbesco, porti invece ad un conflitto che egli definisce “catastrofico”.
Ritorno all’Agosto 1914 ?
L’ex Consigliere per la sicurezza nazionale di Nixon, e poi suo Segretario di Stato, è oggi molto avanti negli anni e, pur avendo mantenuto intatta la sua lucidità, ha meno notorietà ed influenza che non in passato presso il grande pubblico americano, il quale più che mai vive in una sorta di eterno presente, in una “aura senza tempo tinta”, e che ha scarsa dimestichezza con gli eventi del passato, anche di quello recente. Ed è probabilmente per questo motivo che Kissinger si è di recente rivolto spesso agli Inglesi, che sui gruppi dirigenti americani sono gli unici a mantenere una certa influenza politica.
Questa celebre ed autorevolissima personalità politico-diplomatica del ventesimo secolo ha perciò ritenuto opportuno effettuare anche alcune uscite pubbliche in cui manifestare il proprio dissenso dalla politica dell’Amministrazione Biden: una prima volta in un webinar al Royal Institute of International Affairs di Londra, e poi in un’intervista a The Economist. Nella prima di queste due occasioni, nel corso di una discussione con l’ex ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt, Henry Kissinger ha ripetutamente sottolineato come la competizione “infinita” tra le due principali potenze mondiali, politiche, economie e militari, sia ininterrottamente esposta al rischio un’escalation imprevista; e a conseguenze tanto più catastrofiche in quanto oggi sia Pechino che Washington dispongono di armi dotate di intelligenza artificiale e mai prima testate in una guerra vera.
Nelle dichiarazioni all’Economist, poi, l’anziano e saggio diplomatico si è spinto ancora più oltre. E mentre l’intervistatrice tentava ripetutamente di fargli dire che era necessario che l’Occidente organizzasse un regime change in Russia, o addirittura che bisognava “morire per Navalny” – come negli anni cinquanta si diceva che bisognava “morire per Berlino” – Kissinger ha completamente sdegnato le sue domande, non ha mai pronunciato il nome del populista anti-Putin, ed ha invece messo in guardia contro i “conflitti perenni”, in cui ad un certo punto un elemento rischia di andare “fuori controllo “.
Egli ha così ribadito ciò che aveva già detto a Chatham House. E cioè che oggi la situazione è “infinitamente più pericolosa” di quanto non sia stata negli anni di Eisenhower e di Kennedy; e che ben presto, “se non arriviamo a un’intesa con la Cina, ci troveremo in una situazione analoga a quella che ha preceduto la Prima guerra mondiale”.
E questo richiamo al tragico Agosto 1914 – ha addirittura aggiunto – “è un eufemismo.”
Giuseppe Sacco