Molti osservatori politici hanno affermato che il nostro presidente del Consiglio – Giorgia Meloni- si è mosso sulla questione della prossima Commissione europea in modo piuttosto maldestro, mettendo in difficoltà il ruolo complessivo dell’ Italia nel’ UE ( come si è notato, per la prima volta l’ Italia si  auto-esclude dalla maggioranza di Stati membri che ha scelto il Commissario europeo, persino  in contro-tendenza rispetto agli altri Stati fondatori dell’ Europa….)

Marco Iasevoli  su Avvenire del 19 luglio ha parlato di “due cappelli sovrapposti” intendendo dire che non ha certo aiutato Giorgia Meloni il fatto di dover ricoprire contemporaneamente  la posizione di capo del governo italiano e di leader di un “partito europeo”. Due posizioni che a detta dell’autore avrebbero potuto e dovuto integrarsi e non sovrapporsi tra loro.

Questa strategia ambivalente avrebbe spinto la Von der Leyen a cercare il supporto ( pur problematico) dei Verdi e dell’area ambientalista e assicurarsi per quella strada quelle garanzie della sua rielezione non più garantite dalla componente Conservatori e Riformisti.

Uno sbaglio di calcolo dunque da parte italiana: sopravvalutate le contraddizioni dei popolari e l’incompatibilità coi verdi e sottovalutate le conflittualità interne della Destra venute alla luce del sole con la rottura di Orbàn e forse conseguenza anche dell’imprevedibile e spettacolare ritorno di Trump al centro dell’arena politica nazionale e internazionale.

Certo per l’Italia e il suo governo un comportamento diverso sarebbe stato migliore. Ma la presidente del Consiglio aveva davvero, nella sua condizione concreta,  questa possibilità?

Ai sensi dell’art. 17, comma 7 del Trattato europeo, la scelta del Commissario europeo- che piaccia o no- è infatti  prerogativa del Consiglio Europeo, cioè del corpo politico rappresentato dai capi di Stato e di governo dei ventisette. E’ il Consiglio che propone, deliberando a maggioranza qualificata, il candidato che  deve poi essere eletto  dal Parlamento. Il cosiddetto “candidato di punta” che ha raccolto più voti alle elezioni non conta nulla se non è contemporaneamente candidato del Consiglio. Il caso Weber del 2019 è chiarissimo. Quanto il caso Von der Leyen del 2024.  Il primo non condiviso, il secondo condiviso dal Consiglio.

E’ ancora il Consiglio Europeo, in accordo col candidato eletto, ad adottare l’elenco dei Commissari, proposti dai singoli governi, che poi saranno collettivamente soggetti al voto del Parlamento. Dopo questo voto finale sta infine, ancora una volta, al Consiglio Europeo la nomina ( appointment) della Commissione a maggioranza qualificata.  L’ “elezione” parlamentare  è quindi,  per così dire una investitura o una conferma solenne , non una scelta della persona che deve rappresentare l’organo. Forse dovremmo dire è una “votazione” più che una “elezione”.

E’ dunque evidente che la logica di nomina della Commissione è quella della contrattazione e dell’ accordo tra i governi, non quella della espressione di una presunta o reale maggioranza del Parlamento, o del mutamento degli orientamenti in esso prevalenti. Il voto popolare deve esser certo preso in qualche considerazione  ( “taking into account”) per la nomina della Commissione , ma niente di più. E “prendere in considerazione” non significa certo “assecondare”. Può significare anche “prendere le contromisure” ( nel caso, non impossibile, di un voto assolutamente anti-europeista).

Il problema italiano nasce dal fatto politicamente abnorme, ma semplicemente ignorato, che un “capo di governo” di uno Stato membro si sia potuto presentare come candidato nella campagna elettorale europea, raccogliendo consensi incrementati, peraltro non tradotti in una rappresentanza effettiva, pur essendo e rimanendo contemporaneamente leader di una forza politica nominativamente transnazionale ( ECR) che è risultata la  quarta forza politica presente in Parlamento.

 Certo è stata sempre una vecchia “furbizia italiana” far correre ministri e anche deputati nazionali  ( il doppio mandato dei parlamentari è esistito a lungo ) alle elezioni europee. Mai però era successo che si presentasse un presidente del Consiglio addirittura contemporaneamente leader anche di un partito europeo, senza dimettersi da presidente e “rinunciando” invece, dopo le elezioni,  al seggio europeo, non naturalmente alla sua carica di Presidente.

Quale la logica istituzionale di questo? Quale il senso di questa scelta abnorme, ma consentita dalle regole? Non può essere il solo raccogliere più voti. Forse allora può essere che si sia cercato un modo per contare di più in Europa? Un modo nuovo per ribadire che la “pacchia è finita” in modalità inedite?  Uno stratagemma adottato in buona fede per “rafforzare” la situazione difficile dell’ Italia? Chissà qualcuno, non il presidente del Consiglio ovviamente, forse può averlo pensato. Forse qualcuno  avrà  pensato: più potere in Europa può aiutare a cambiare davvero l’ Europa.

Peccato che purtroppo l’effetto sia stato esattamente l’ opposto.  E non poteva non essere l’opposto. Per un motivo semplicissimo e incredibilmente ignorato dal senso comune. Perché la sovrapposizione dei poteri, la confusione dei poteri e delle competenze, non costruisce una somma ma realizza una sottrazione. Il fenomeno – o ciò che i costituenti americani definirono come   imperium in imperio , alludendo alle confuse interferenze del potere confederale e di quello dei governi dei 13 stati che si verificarono durante la Confederazione americana che durò dal 1777 al 1787 ( fino alla Costituzione) non rafforzava  affatto i poteri, ma li indeboliva,  rendendoli inaffidabili e unaccountable, non responsabili.

A chi deve infatti rispondere l’ organo che cumula in sé due poteri?  Nel nostro caso, al governo nazionale che presiede  o alla  maggioranza  transnazionale di cui è leader ? Ovviamente  se risponde all’uno non può rispondere all’altro. Per la “contraddizion che nol consente” come si esprime il diavolo dantesco con Guido da Montefeltro.

Non si può perseguire contemporaneamente la prospettiva di un governo ( che non ha solo Fratelli d’ Italia tra le sue componenti) e quella di una rappresentanza transnazionale ( che esprime solo  ECR, cioè i Conservatori e Riformisti europei). Non si può essere “coerenti” con l’uno e con l’altra al tempo stesso.   Il diniego assoluto all’accordo coi Verdi una opzione legittima, ma per ECR, non certo per un governo in cui vi sono componenti diverse. 

E’ però anche necessaria una “visione” più ampia dell’ Europa? E’ questo ciò che non va nella scelta del nuovo Commissario? Certo potrebbe essere.  Ma una visione del genere andava affermata a chiare lettere in campagna elettorale. E non può essere definita una “nuova visione” rallentare le scelte del green, polemizzare contro l’ideologismo dei Verdi o chiedere poco altro in più.

Certo però alcuni problemi si pongono anche per l’ UE e non solo per l’ Italia. Per esempio questa ennesima anomalia italiana è stata consentita da una grande e sottovalutata anomalia europea, la mancanza   di una “procedura elettorale uniforme” nelle elezioni europee ( qualcosa di cui, incredibilmente,  addirittura ben prima del Parlamento elettivo, l’art. 138, comma 3   del Trattato istitutivo della CEE del 1957 aveva indicato con la frase seguente: “L’Assemblea elaborerà progetti intesi a permettere l’elezione a suffragio universale diretto, secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri”). Se avessimo avuto  le regole di incompatibilità e ineleggibilità necessarie una abnormità del genere non si sarebbe potuta mai verificare.

La cultura istituzionale assente in Italia è purtroppo non in buona salute neppure in Europa.  Anche in UE c’è una distrazione inquietante su questo tema , laddove sembra che contino solo le regole finanziarie ed economiche.  Le regole istituzionali sagge e prudenti sono quelle che neutralizzano la bulimia del potere e fanno esistere e rendono forte la politica vera, quella fondata sul conflitto pacifico delle idee, che è il sale di ogni democrazia. Regole che non si possono surrogare con deroghe, sospensioni e comunicazioni interpretative per lungo, pena la  tenuta delle istituzioni che reggono la democrazia e che non possono essere usate in modalità ancora più assurde, magari giocando una istituzione contro l’altra anche per la finalità in apparenza più “nobile”.   La futura Commissione forse dovrebbe  tener conto anche di questo. 

Umberto Baldocchi

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