All’inizio dell’anno, il tempo sembrava volgere al bello. Stando al ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, come riferito durante l’audizione al Parlamento del 20 gennaio, nei primi 10 giorni del 2022 le classi in Dad sono state il 6,6% del totale (pari al 11,6% alunni), un decimo di quanto paventato dall’Associazione nazionale presidi (CLICCA QUI) a una settimana dalla riapertura delle classi. I dati più recenti i (CLICCA QUI) – pubblicati oggi e riferiti al periodo 17-22 gennaio – segnano però un aumento: con il 15,5% delle classi in Dad (pari al 18,1% degli alunni).
Difficile dunque dire oggi a chi dare ragione, se al premier Mario Draghi – “La scuola non va abbandonata. La Dad crea disuguaglianze” – e torto al Governatore della Campania Vincenzo De Luca (“Credo sia irresponsabile aprire le scuole il 10 gennaio”), la cui ordinanza di rinvio era stata anche bocciata dal Tar Campania.
In ogni caso, il punto da cui partire è proprio questo: la tenaglia tra torto e ragione. La Dad separa infatti chi la vede come male assoluto (perché crea diseguaglianza) e chi la considera il migliore dei mondi possibili (perché fa prevalere l’interesse sanitario su quello didattico e sociale). È una impostazione del dibattito che toglie voce a chi, in mezzo, vorrebbe porre una domanda di merito: di cosa parliamo, esattamente, quando parliamo di Dad? C’è un futuro per il digitale oltre e fuori dalla emergenza? Fatta in modo diverso può servire a qualcosa, per esempio a ridurre i nostri elevati tassi d’abbandono (CLICCA QUI)?
I costi della Dad
In Italia la didattica a distanza ha certamente acuito il deficit di apprendimento, come temevano tutti i principali enti internazionali (CLICCA QUI). Le prove Invalsi 2021 (CLICCA QUI) dicono che su italiano e matematica il deficit è cresciuto soprattutto alle superiori, e si sono ampliati i gap geografici tra Nord e Sud. Va aggiunto che secondo uno studio di qualche mese fa (CLICCA QUI) l’andamento di questo deficit non sembrerebbe “troppo difforme tra gli allievi di diversa origine sociale”. La didattica a distanza, a quanto sembra, ha indebolito tutti in modo trasversale, aggravando un trend di lungo corso. Ovviamente, non una buona notizia.
Ci sono poi i costi psicologici, più difficili da misurare. In Italia l’Ordine Nazionale Psicologi ha effettuato un anno fa un’indagine (CLICCA QUI) su studenti e genitori. E all’estero ci sono solide evidenze empiriche sui bambini giapponesi (CLICCA QUI) tra i 4 e i 10 anni (e sulle loro madri) e su quelli britannici (CLICCA QUI). In tutti i Paesi , Italia compresa, le deprivazioni sono pesanti e si traducono in ansia, depressione, disturbi dell’alimentazione. Un indicatore indiretto della gravità del tema è il fatto che l’ultima legge di Bilancio ha stanziato 20 milioni per il supporto psicologico degli studenti e del personale.
Infine, gli effetti sulle famiglie sul versante economico. La pandemia discrimina e accentua le differenze in termini di dotazioni (spazi, collegamenti, computer) colpendo soprattutto le famiglie più povere (CLICCA QUI). Ma soprattutto aggrava il carico di cura familiare, con ripercussioni sui tassi di occupazione femminile. Nei giorni scorsi il Mef ha presentato il Bilancio di Genere 2021 (CLICCA QUI): il tasso di occupazione femminile nel 2020 è sceso al 49% (nel 2019 aveva superato per la prima volta il 50%) e il divario rispetto a quello maschile è salito a 18,2 punti percentuali (contro il 17,9% del 2019). Conciliare vita e lavoro con dei figli a casa ha determinato un impatto maggiore sulle donne con figli: il loro tasso di occupazione è il 73,4% di quello delle donne senza figli. Un peggioramento di quasi l’1% rispetto al 2019.
Capire cosa non è la Dad
Fin qui il bilancio dei costi, e c’è poco da obiettare: la Dad fa male. Pochi dubbi anche sulla provvisorietà di soluzioni per colmare il gap infrastrutturale. Due terzi degli edifici scolastici italiani sono stati costruiti prima del 1976 e soffrono di mali antichi – locali insufficienti, impianti di areazione pressoché inesistenti – che hanno reso arduo assicurare soluzioni alternative all’insegnamento a distanza. E non sono certo serviti rimedi estemporanei, come i banchi a rotelle, presto archiviati.
La didattica a distanza non è stata, e di certo non poteva essere durante il primo lockdown del 2020, un’esperienza che ha espanso le possibilità di apprendimento.
Ma a questo punto occorre entrare davvero nel merito della questione, ciò che in concreto la Dad italiana è stata. Ovvero: né più né meno che la trasposizione su computer di approcci, metodi, modalità e strumenti tipici dell’insegnamento in presenza. È come pretendere di girare un film digitale con una telecamera analogica: il film non può che risultare sgranato. L’impressione, suffragata da molti dati, e che sia mancato un ripensamento di tempi, attività e strumenti, cioè un vero sforzo per sperimentare strategie per valorizzare maggiormente autonomia e protagonismo dei ragazzi.
Di fatto – e sta qui il punto – la didattica a distanza non è riuscita a essere, anche dopo gli apprendimenti del primo lockdown del 2020, un’esperienza di didattica digitale integrata. Un’espressione quest’ultima – come spiegano anche le linee guida del Ministero in materia (CLICCA QUI) – con cui si intende una metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento che si propone come modalità didattica complementare, che integra la tradizionale esperienza di scuola in presenza. Un approccio e un metodo in cui le tecnologie digitali rappresentano una scelta – e non un’imposizione emergenziale – fatta consapevolmente e sulla base di competenze capaci di integrare il lavoro in presenza. In altre parole una espansione delle possibilità di apprendimento e della partecipazione degli allievi offerte dal digitale.
Secondo i (CLICCA QUI) della Fondazione Agnelli su 123 istituti superiori secondari emerge infatti come nel periodo di lockdown solo in 1 caso su 3 siano state proposte anche attività di ricerca che gli studenti potevano svolgere in autonomia o in gruppo, mentre in meno di 1 caso su 5 sono state sperimentate le più innovative piattaforme digitali che propongono giochi didattici, app ed esercizi interattivi per personalizzare i percorsi di apprendimento. Solo in 1 caso su 10, infine, è stato richiesto agli studenti di produrre propri materiali per l’apprendimento. Il risultato: “Docenti e dirigenti scolastici confermano il generale quadro di scarsa innovazione didattica”. Per la maggior parte degli studenti questo si è tradotto in un maggiore affaticamento (65%) dopo una giornata di scuola in Dad e una maggiore difficoltà a mantenere l’attenzione (73%).
Nessuno spera che la Dad sia ancora necessaria. E parlare di “colossale occasione di sperimentazione”, come ha fatto qualcuno, è improprio. Di certo questa generale prova di sforzo ha messo a nudo ritardi di metodo e approcci con cui il digitale può essere messo al servizio della didattica.
La causa principale di tutto questo sta nella impreparazione del corpo docente a un cambiamento così radicale. In seguito al colpo di frusta della pandemia la formazione dei docenti al digitale è stata prevalentemente effettuata con risorse interne alla scuola (team, animatore digitale, docenti esperti) e ha riguardato prevalentemente l’uso del Registro elettronico e l’utilizzo di piattaforme informatiche. Come riporta la Fondazione Agnelli, negli altri ambiti – metodologie innovative di insegnamento, di apprendimento e per l’inclusione; didattica interdisciplinare; strumenti e metodologie per nuove forme di valutazione – nel 40% circa dei casi non è stata effettuata, secondo i dirigenti scolastici alcuna attività di formazione.
L’attuale livello di digitalizzazione della scuola
Non è un dato che sorprende. Come analizzato in una ricerca sul sistema scolastico realizzata da Percorsi di secondo welfare, che sarà pubblicata a breve, il Governo italiano ha iniziato a occuparsi di istruzione digitale ben prima della pandemia. Nel 2015 è stato approvato il Piano Nazionale Scuola Digitale (CLICCA QUI) Piano Nazionale Scuola Digitale finalizzato a rafforzare l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) per l’insegnamento e l’apprendimento. Tuttavia, ad oggi, 7 anni dopo, il Piano pare non avere risolto le criticità su cui doveva intervenire.
Le scuole italiane, infatti, pur essendo dotate delle attrezzature digitali a livelli comparabili con gli altri Paesi europei, sono ancora in ritardo per quanto riguarda la velocità della connessione e soprattutto per il livello di competenze digitali posseduto dai docenti. Solo il 26,9% delle scuole italiane è dotata di una connessione ad alta velocità, contro una media UE del 47%, e il 35,6% dei docenti italiani considera la propria preparazione sull’utilizzo delle ICTs adeguata, mentre la media UE è del 37,5%.
Se poi si guarda al Piano scuola 21/22 (CLICCA QUI) – il documento di pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative che avrebbe già dovuto capitalizzare gli apprendimenti del primo lockdown – tutto si risolve in un solo paragrafo su 14 pagine. Vi si prescrive che “occorre continuare ad organizzare – singolarmente o in rete, mediante webinar o in presenza, in ragione dell’evoluzione pandemica – attività di formazione per il personale docente e ATA, così da consolidare le competenze nell’utilizzo delle nuove tecnologie acquisite nei due precedenti anni scolastici. L’obiettivo è che il “digitale” possa divenire strumento di rinforzo della didattica “in presenza” e, più in generale, delle competenze professionali di tutto il personale”.
Le condizione per andare oltre Dad
Partendo da queste considerazioni, nelle prossime settimane Secondo Welfare vuole capire se e in che modo queste attività di formazione si stiano svolgendo, e in base a quali paradigmi didattici. Ma anche se e quanto si stiano dimostrando efficaci nel colmare i divari formativi pre-esistenti. Se, insomma, esiste un futuro oltre la Dad. Un futuro che possa cambiare acronimo, per diventare Didattica digitale integrata e farsi leva di inclusione invece che di disparità.
Occorre mettere gli istituti scolastici al centro di una nuova alleanza educativa. Devono diventare incubatori di vocazioni e agenzie di eguaglianza che sappiano capitalizzare le opportunità offerte dal digitale più e meglio di quanto accaduto con la Dad.
Ci sono almeno tre condizioni indispensabili perché questo avvenga.
- La prima è aumentare in via strutturale la spesa capitale in formazione docenti, in particolare sul fronte delle competenze digitali. L’Italia spende in generale meno di altri Paesi per investimenti nel sistema d’istruzione. E il capitolo di gran lunga più ampio (il 76%) è destinato alla retribuzione del personale, contro una media europea del 65%. Ma a livello di spesa per gli investimenti, invece, siamo di molto al di sotto della media: meno del 3% in Italia contro circa il 5%.
- La seconda condizione (CLICCA QUI) è capitalizzare al meglio gli investimenti possibili grazie al PNRR: sulle infrastrutture tecnologiche nelle scuole (ad esempio, assicurando agli edifici scolastici la connessione in fibra e digitalizzando i processi amministrativi) e sullo sviluppo delle competenze digitali, matematiche e scientifiche, il Piano stanzia 3 miliardi. Su questo bisogna fare presto, ma soprattutto bene: il 30 giugno è la deadline per il piano di rafforzamento delle competenze Stem e per la formazione digitale, attraverso appositi poli territoriali da istituire nelle scuole che risponderanno al bando, degli insegnanti. Su questo fronte, da febbraio i docenti potranno inoltre accedere ai nuovi corsi della piattaforma Scuola futura (CLICCA QUI), che affiancherà la piattaforma Sofia (CLICCA QUI) attiva da maggio 2017.
- La terza condizione è quella per noi essenziale. Occorre mettere gli istituti scolastici al centro di una nuova, vera alleanza educativa che ripensi la didattica a partire dal digitale, integrando insegnamento a distanza e in presenza, favorendo nuove forme di partecipazione più attive e stimolanti degli allievi con il tessuto circostante, per spezzare l’isolamento sofferto durante la pandemia. Possiamo sintetizzare il concetto così: grazie a una moderna didattica digitale gli istituti scolastici devono diventare da subito incubatori di vocazioni e agenzie di eguaglianza. Devono farsi parte attiva nell’interpellare gli altri soggetti del territorio per diventare luoghi di scambio sociale partecipato con mondi altri – imprese profit, imprese sociali e organizzazioni del Terzo settore, associazioni di volontariato – che le popolino di significati nuovi.
E perché queste condizioni si realizzino occorre dare ai presidi il ruolo di mediatore tra i soggetti, le conoscenze e le esperienze dei territori per innescare logiche aperte di co-progettazione sui percorsi educativi in chiave digitale.
Cosa c’entra tutto questo con la Dad? C’entra, perché ogni software – nuovi modi di insegnare partecipati, coinvolgenti e digitalmente avanzati – ha bisogno di un hardware, cioè un sistema di competenze e di risorse che la scuola può e forse deve cercar anche fuori da sé, abbandonando logiche autoreferenziali. Se sarà così, allora la Dad sarà stata, oltre che uno shock e un costo per tutti, anche una occasione per ripensare la didattica italiana.
Per conto nostro è quello che proveremo a raccontare e documentare a partire dalle prossime puntate di questa serie di articoli.
Francesco Gaeta
Pubblicato su Percorsi di Secondo Welfare (CLICCA QUI)