Fa sorgere non poche aspettative il d. lgs. 8/11/2021, di attuazione della Direttiva dell’UE 2016/343 su come garantire la presunzione di innocenza. Va tuttavia operata una seria verifica della rispondenza delle nuove disposizioni alle intenzioni di scongiurare le condanne mediatiche: l’etica professionale non è sempre orientabile dalle regole, soprattutto se queste ultime non appaiono di facile applicazione.
- Con il decreto legislativo dell’8 novembre 2021 il Governo ha dato attuazione alla Direttiva dell’UE 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza. Le disposizioni, ad una prima lettura, sembrano, in effetti, corroborare, sul piano soprattutto sanzionatorio, le disposizioni già esistenti in tema di comunicazione concernenti le indagini preliminari. Così come, ad una prima valutazione, non può che convenirsi sull’esigenza di richiamare, soprattutto investigatori e pubblici ministeri, a uno stile improntato a discrezione e riservatezza, anche mediante più persuasivi ed efficaci strumenti di tutela dell’indagato leso nel diritto a non essere presentato come colpevole prima che una sentenza lo abbia giudicato tale. E tuttavia, val la pena scendere più in profondità, soprattutto per valutare l’impatto delle nuove disposizioni sul diritto vivente e sui comportamenti di tutti i protagonisti.
- Partiamo dalle novità. Indubbiamente lo è l’aver costruito il diritto alla presunzione di innocenza come diritto della personalità, suscettibile non solo di una riparazione risarcitoria, ma altresì di una complessa tutela cautelare, non soltanto esperibile con lo strumento del provvedimento di urgenza ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, ma anche con un peculiare diritto alla rettifica. La particolarità sta nel fatto che la pretesa viene esercitata nei confronti di ogni autorità pubblica responsabile della comunicazione lesiva: non solo, quindi, verso gli investigatori, ma nei confronti di ogni altro soggetto pubblico che abbia pronunziato la dichiarazione.
- Tuttavia, se per quanto attiene agli attori del procedimento penale, il decreto interviene su un quadro che può dirsi – sulla carta, almeno – ben definito, altrettanto non può dirsi per gli altri soggetti. E infatti, le disposizioni in questione vanno a ulteriormente conformare i poteri del Procuratore della Repubblica, titolare esclusivo dei rapporti con gli organi di informazione, ponendo delle condizioni di merito e di metodo ai fini di un corretto esercizio degli stessi. In primo luogo, prevedendo che la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono rilevanti ragioni di interesse pubblico; e, quanto alle modalità, stabilendo che tale diffusione avvenga esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”. Non altrettanto può dirsi per le altre pubbliche autorità, come parlamentari o componenti dell’Esecutivo, per i quali è veramente impossibile ipotizzare codici e sanzioni: non vi è, infatti, a legislazione vigente, alcun obbligo per i soggetti diversi da investigatori e pubblici ministeri di diffondere le informazioni mediante comunicati o conferenze stampa, sicché pare una disposizione destinata a rimanere non attuata perché, in buona sostanza, non attuabile.
- Altro aspetto da considerare riguarda proprio l’irrigidimento delle condizioni in presenza delle quali è consentita la diffusione delle informazioni. Non che non sia condivisibile, come già sottolineato in esordio, un richiamo ad inquirenti e magistrati a un più rigoroso self restraint, soprattutto con riferimento a un uso spesso disinvolto delle conferenze stampa e alla partecipazione a programmi televisivi dediti alla spettacolarizzazione di vicende giudiziarie. La questione è un’altra: siamo davvero sicuri che stringere fortemente le maglie della comunicazione non induca ad abbandonare lo strumento dei comunicati stampa, anche in considerazione dei rischi cui tale strumento espone l’autore, facendo apparire più conveniente la comunicazione occulta, e quindi passando sotto banco al giornalista di riferimento quel che non può entrare nella nota stampa? Non si tratta di essere indulgenti verso un sistema che ha fatto, da più parti, invocare alla separazione delle carriere: ma a quella fra alcuni pubblici ministeri e alcuni giornalisti. Si intende, piuttosto, sollevare qualche dubbio su un complesso di disposizioni che sembrano condurre a effetti opposti rispetto alle finalità di tutela dei diritti dell’indagato che si propongono; privilegiando, più che la trasparenza dei canali di comunicazione, magari limitandoli ai comunicati-stampa, la strada della loro restrizione.
- Vi è un altro profilo che merita di essere sottolineato, che non attiene alla condotta di investigatori e pubblici ministeri, bensì a quella del giudice. Viene stabilito che, nei provvedimenti diversi dalla sentenza – si pensi alle ordinanze cautelari o ai provvedimenti di riesame – i riferimenti alla colpevolezza devono limitarsi alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento. In caso di inosservanza, l’interessato potrà richiedere la correzione del provvedimento. Orbene, è senz’altro da condividere il richiamo a uno stile di redazione dei provvedimenti che si mostri più attento al principio di continenza e che non indulga a giudizi ed apprezzamenti relativi alla persona dell’indagato, talora pretenziosamente moralistici, del tutto esotici rispetto alla funzione dell’atto. Ancora una volta, però, si tratta di valutare realisticamente l’adeguatezza dell’assetto normativo introdotto rispetto alle finalità di tutela perseguite. Si prevede, infatti, che l’interessato rivolga questa peculiare istanza di rettifica al giudice per le indagini preliminari e non al giudice che ha emesso il provvedimento; il che significa che dovrà essere individuato in ogni ufficio giudiziario un giudice che sarà chiamato a valutare le istanze di correzione relative a provvedimenti adottati da altri giudici per le indagini preliminari o dal tribunale del riesame. Pertanto, il giudice della correzione si troverà, verosimilmente, dinanzi ad un bivio: o accoglierà l’istanza e, di fatto, assumerà anche le vesti di giudice disciplinare del magistrato che ha emesso il provvedimento, dal momento che una tale evenienza astrattamente potrà integrare una specifica ipotesi di illecito disciplinare già prevista, oppure, molto più realisticamente, si limiterà a una valutazione necessariamente superficiale, anche perché compiuta da chi non conosce il fascicolo, talora assai ponderoso, dell’indagine preliminare.
- In conclusione, deve rilevarsi come, al di là delle intenzioni del legislatore e delle altisonanti declamazioni di principio contenute nella Direttiva UE, sia del tutto illusorio ritenere di poter risolvere una questione dai connotati essenzialmente etici e deontologici mediante un articolato sistema di diffide e istanze correttive, che finiscono solo con l’appesantire, con un ulteriore sub procedimento, un rito già assai farraginoso. Si tratta, in definitiva, di una questione culturale, che solo una mentalità tardo illuministica può pensare di risolvere con un pugno di norme, per decreto. Rosario Livatino non ha avuto necessità di disposizioni mirate per essere un magistrato esemplare anche quanto a riserbo, vedendo in quest’ultimo una forma non marginale di rispetto per l’accusato: e non ha fatto il giudice qualche secolo fa. Parlare di lui nei corsi di formazione potrebbe essere più efficace del produrre direttive e decreti delegati.
Domenico Airoma