Il Centro studi Rosario Livatino ha pubblicato il seguente intervento sulla guerra in Ucraina, a firma di Pietro Dubolino

1.  Immaginiamo che il proprietario di un immobile, a fronte del mancato adempimento, da parte dell’inquilino moroso, della promessa di lasciarlo libero, approfitti di una favorevole occasione per occuparlo “manu militari”, invece di rivolgersi, come dovrebbe, al giudice per ottenere l’emissione di un provvedimento di sfratto. E immaginiamo che l’inquilino, invece di rivolgersi anche lui al giudice con azione di spoglio, proponga al proprietario di addivenire a quella che egli presenti come una transazione ma che, nella sostanza, in altro non si risolverebbe se non nel puro e semplice ripristino dello “status quo ante”, con l’aggiunta, inoltre,  dell’impegno, da parte del proprietario, di rinunciare ad ogni sua pretesa e di risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali che l’inquilino assuma di aver subito in conseguenza dello spoglio.

Difficilmente qualcuno potrebbe ritenere ingiustificato il rifiuto, da parte del proprietario, di una tale proposta, sostenendo che essa risponderebbe ad indiscutibili finalità di giustizia. E’ vero, infatti, che il proprietario, con la sua condotta, avrebbe posto in essere un illecito non solo civile, ma anche penale, costituito dal reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 392 cod. pen.), per cui dovrebbe soggiacere alle sanzioni ed alle altre conseguenze previste dalla legge, ivi compreso l’obbligo del risarcimento del danno in favore dell’inquilino. Ma è altrettanto vero che da quella condotta non sarebbe certamente derivata, allo stesso proprietario, la perdita del suo originario diritto, perdurando la morosità dell’inquilino, di rientrare in possesso dell’immobile locato; diritto, questo, che egli potrebbe, quindi, esercitare autonomamente o anche in via riconvenzionale, a fronte dell’azione di spoglio che contro di lui fosse stata proposta.

2. Ora, a ben vedere, la situazione venutasi a creare tra Russia e Ucraina non è troppo dissimile da quella sopra descritta. Con gli accordi di Minsk che, nel 2014, erano stati stipulati tra Russia e Ucraina e sottoscritti, per garanzia, anche da Francia e Germania, l’Ucraina aveva, infatti,  preso l’impegno, nei confronti della Russia, di adottare una serie di provvedimenti volti ad assicurare un’ampia sfera di autonomia in favore delle popolazioni russofone del Donbass; impegno che, però, non risulta essere mai stato adempiuto, essendosi anzi posta in essere, per quanto è dato sapere, una politica di sistematica oppressione di quelle popolazioni, con l’uso anche della forza militare. Questa la ragione (o una delle principali ragioni) addotta dalla Russia a giustificazione dell’“operazione militare speciale” intrapresa contro l’Ucraina il 24 febbraio 2022 e che ha portato all’occupazione, tuttora perdurante, del Donbass o di una buona parte di esso.  La Russia, quindi, pur avendo indubbiamente compiuto un atto di aggressione, non è equiparabile ad un puro e semplice aggressore (quale, ad esempio, era stato invece l’Iraq di Saddam Hussein allorché, nel 1991, senza addurre la benché minima giustificazione, aveva invaso il confinante Kuwait trasformandolo in una propria provincia). Così come – tornando all’esempio fatto all’inizio – non è equiparabile ad un puro e semplice invasore, quale definibile in base all’art. 633 cod. pen. (che prevede appunto come reato l’arbitraria invasione di edifici o terreni altrui per occuparli o trarne altrimenti profitto), il proprietario che pure “invada”, per rientrarne in possesso, l’immobile condotto in locazione dall’inquilino moroso, dovendo egli rispondere soltanto, come si è detto, del diverso reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

3. Ciò non significa, naturalmente, che l’Ucraina non avesse il diritto di resistere all’attacco e di cercare di respingerlo, così come non può dirsi (sempre per tornare al suddetto esempio) che l’inquilino moroso, quando sia presente, non abbia il diritto di opporsi, anche con la forza, all’atto di spoglio che il proprietario voglia commettere ai suoi danni.  Un tale diritto, però, non comprende anche quello di porre nel nulla il preesistente diritto che la controparte avrebbe avuto all’osservanza dell’obbligazione che nei suoi confronti era stata assunta ed era rimasta inadempiuta. Ed è proprio sotto quest’ultimo profilo che la posizione del governo ucraino appare contraria ai principi di diritto – validi anche, “mutatis mutandis”, nei rapporti internazionali – ai quali finora si è fatto riferimento. Quello che il governo ucraino ha presentato e continua a presentare come il suo “piano di pace” (il cui testo è facilmente reperibile su internet) in altro non consiste, infatti, nella sua parte essenziale, se non nella pretesa di un puro e semplice ritorno allo “status quo ante”, da realizzarsi mediante l’immediato ed incondizionato ritiro delle truppe russe dalle zone occupate ed il ritorno di queste ultime sotto il pieno controllo dell’Ucraina. Il tutto senza che si faccia il benché minimo accenno a quello che sarebbe poi il trattamento da riservarsi alle popolazioni russofone che, in quelle zone, costituiscono la stragrande maggioranza ed a tutela delle quali erano stati stipulati gli accordi di Minsk. Più che di un “piano di pace” si tratta, quindi, di una proposta di resa incondizionata, difficilmente accettabile, come tale, dalla controparte, così come (richiamando ancora una volta l’esempio fatto all’inizio), difficilmente sarebbe accettabile dal proprietario la pretesa “transazione” propostagli dall’inquilino moroso spogliato del possesso dell’immobile.

4. Se così è – e non sembra facile negarlo – dovrebbe dunque risultare chiaro che non può ritenersi oggettivamente giustificato l’escludere “a priori” ogni vera trattativa di pace ed anche ogni ipotesi di semplice tregua sull’assunto che altrimenti si recherebbe offesa alla giustizia e al diritto, consentendo all’aggressore di trarre comunque un qualche vantaggio dall’azione posta in essere nei confronti dell’aggredito. In realtà quella che il governo ucraino apertamente persegue è la pura e semplice vittoria militare, da conseguirsi mediante la tante volte annunciata  “controffensiva” che dovrebbe portare alla riconquista (o “liberazione”) dei territori occupati, ivi compresa la Crimea, la cui occupazione da parte della Russia era, peraltro, avvenuta fin dal 2014, praticamente quasi senza colpo ferire, e da allora era proseguita pacificamente, tanto da potersi dire accettata, “de facto”, dalla stessa Ucraina, oltre che dalla generalità della comunità internazionale. Significativo, al riguardo, appare, del resto, il fatto che di essa, negli accordi di Minsk, non si faceva cenno alcuno.

Ma la ipotetica “vittoria” dell’Ucraina sarebbe per ciò stesso anche una totale vittoria del diritto sulla forza bruta?  Lasciamo da parte, per non appesantire troppo il discorso, ogni considerazione (che pur sarebbe doverosa) circa la congruità o meno del prezzo che essa richiederebbe in termini di vite umane e di danni materiali, come pure circa le terrificanti prospettive che potrebbero aprirsi se la Russia, messa alle strette, decidesse di far ricorso alle armi nucleari di cui ha larghissima disponibilità. Limitiamoci quindi a dire che, alla stregua di quanto precedentemente illustrato, non sembra che la risposta al suddetto interrogativo possa essere positiva. Una “vittoria” come quella perseguita dall’Ucraina , infatti,  se riaffermerebbe, da una parte, la validità del fondamentale principio, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, per cui non si può ricorrere alla guerra per risolvere una controversia internazionale, si tradurrebbe però anche, dall’altra parte, in una definitiva auto affrancazione della stessa  Ucraina, ottenuta mediante l’uso della forza, da quella che avrebbe dovuto essere l’osservanza, da parte sua,  dell’altrettanto fondamentale principio di diritto internazionale espresso nell’antico e noto brocardo secondo cui “pacta sunt servanda”. E, nella specie, il “pactum” destinato a rimanere irrimediabilmente violato sarebbe (come si è detto) quello stipulato con gli accordi di Minsk in favore delle popolazioni russofone del Donbass. Con l’aggravante che queste ultime rimarrebbero anche esposte alle presumibili vendette dei vincitori, siccome fondatamente sospettabili di pregressa connivenza, se non anche di aperta collaborazione, con lo sconfitto “invasore”.

5. Risulterebbe, inoltre, lasciato nel più assoluto dispregio un altro principio ancora, che è quello del diritto dei popoli all’autodeterminazione, espressamente previsto anch’esso dalla Carta della Nazioni Unite e riaffermato da successive convenzioni internazionali tra cui, in particolare, l’“atto finale” della conferenza di Helsinki del 1975 per la sicurezza e la cooperazione in Europa.

Ed è, invece, proprio al principio dell’autodeterminazione dei popoli che sarebbe necessario richiamarsi per trovare una possibile via di uscita dal conflitto armato che non contrasti con il diritto internazionale e, al tempo stesso, consenta ad entrambi i contendenti, in qualche modo, di “salvare la faccia”. Via di uscita che potrebbe, quindi, consistere in una tregua immediata, seguita da un provvisorio passaggio sotto controllo internazionale delle zone occupate dalle forze armate russe e da un rinnovo, sotto lo stesso controllo, della consultazione referendaria delle popolazioni interessate perché esprimano la loro volontà circa l’appartenenza all’Ucraina o alla Russia, ovvero anche in favore dell’indipendenza. A tali linee si ispira, del resto, in gran parte, il piano di pace recentemente presentato dall’Indonesia – come ampiamente riferito dai mezzi d’informazione – al “summit” sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico tenutosi a Singapore; piano che, però è stato subito bocciato tanto dal portavoce del governo ucraino quanto dal commissario agli esteri dell’Unione europea, anche se, stranamente, non sembra aver suscitato reazioni da parte degli USA. Che, al momento, questo o analoghi piani non incontrino alcuna prospettiva di successo, così come non sembra che ci si possano aspettare positivi risultati dalla pur coraggiosa e benemerita iniziativa di mediazione assunta dal Vaticano, appare, purtroppo, innegabile. Ciò  non deve diventare, tuttavia, motivo di scoraggiamento per quanti (e sono molti) non condividano e vogliano contrastare il pervicace convincimento mostrato dalla maggior parte dei governi occidentali, secondo cui solo da una vittoria militare dell’Ucraina potrebbe scaturire quella che viene da essi definita una “pace giusta”, laddove questa sarebbe invece, con ogni probabilità, soltanto la premessa di una nuova e ancor più terribile guerra, così come lo fu la pace (anch’essa ritenuta, a suo tempo,  “giusta”), imposta alla Germania dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale.

Pietro  Dubolino 

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