C’era una volta un Parlamento di 630 deputati e 315 senatori che è stato ampiamente tosato, nell’intesa – intervenuta tra PD, allora guidato da Zingaretti, e Movimento 5 Stelle – che si sarebbe varata una nuova legge elettorale proporzionale.
Al fine di dare nuova linfa e respiro alla sovranità popolare, evitando che la riduzione del numero dei parlamentari possa costituire un altro giro di vite, destinato ad impoverire ulteriormente la rappresentanza, sostanzialmente già umiliata da un sistema maggioritario che tendenzialmente la comprime e la costringe in un percorso predeterminato, in funzione del primato della governabilità.
Eppure, fonte primaria della legittimità democratica è pur sempre la piena ed effettiva titolarità della rappresentanza, cosicché – non a caso – la governabilità che, in linea teorica dovrebbe avvalersi di una configurazione più compatta della rappresentanza parlamentare, ad un certo punto, ove si regga su una qualche forzatura artificiosa del consenso indotta dal sistema elettorale, va incontro ad uno stallo, allorché, al di là della numerosità delle maggioranze parlamentari, queste collidono con il sentimento del Paese.
Si entra nel girone infernale di quella “democrazia malata” che anche Enrico Letta ha richiamato, ricordando quanti governi e quanti premier si sono succeduti nel volgere degli ultimi dieci anni o poco più.
Che vi fosse questo impegno, il buon Zingaretti l’ ha scordato strada facendo, anche perché quando via ha accennato, pur senza grande determinazione, com’è nel suo costume, a sbarrargli la strada ci ha pensato il solito Renzi, che a furia di assumere sé stesso e le convenienze contingenti del suo partito, piuttosto che una oggettiva ponderazione dell’ interesse del Paese, a misura della sua linea politica, ha finito per approdare ad una eterogenesi dei fini di cui ora avrà tempo e modo di pentirsi.
Con piena soddisfazione dei 5Stelle che hanno incassato quanto preteso, senza nulla rendere di quanto promesso e dovuto.
Non è chiaro se, al passaggio delle consegne, tale credito che Il PD vanta o ancora vanterebbe, sia stato trasmesso da Zingaretti a Letta, che, peraltro, essendo stato invocato in una situazione addirittura pre-agonica del suo partito, ha, sulla carta, tutto il diritto di esercitare poteri emergenziali.
Ha fatto cenno, nell’intervento programmatico e di insediamento alla guida del PD, all’opportunità di ripartire dal “Mattarellum” e, almeno così pare, ha posto la questione in termini aperti, come avvio di un ragionamento piuttosto che come una determinazione tassativa.
Ed oggettivamente il problema della legge elettorale rappresenta un banco di prova su cui dovranno misurarsi le nuove leadership ed i nuovi indirizzi che si sono affermati con la svolta del governo Draghi.
Vale per Enrico Letta, ma anche per Conte e – perché no ? – perfino per il nuovo orientamento della Lega.
Il governo Draghi rappresenta una parentesi e non si deve dare per scontato che ne debba conseguire la normalizzazione o addirittura la restaurazione di quel bipolarismo maggioritario che, distillato negli alambicchi di una classe dirigente impegnata sopra tutto a succedere a se stessa, ha di fatto, in buona misura, tolto la parola agli italiani, almeno a quella vasta platea di elettori che hanno cessato di ricorsi alle urne, in misura tale da rendere sostanzialmente parziale e viziato in radice, il responso elettorale, qualunque esso sia.
Non di restaurazione, bensì, come recita il Documento Politico-Programmatico di INSIEME, abbiamo bisogno di una “trasformazione” del Paese, a cominciare dal suo sistema politico-istituzionale.
E questo passa anche da una legge elettorale che finalmente restituisca pienamente l’Italia alla capacità di giudizio ed all’autonoma critica degli italiani.
Ed il fatto che il concetto di “coalizione” abbia fatto capolino nelle parole di Letta è cosa di un qualche rilievo su cui sarà opportuno e necessario tornare.
Domenico Galbiati