Sulla vittoria a valanga di Trump dovremo approfondire ed, ovviamente, tornare a scriverne, in più occasioni. Sotto vari profili.
Il Paese che ha immaginato di essere fonte di ispirazione e guida dell’Occidente democratico non c’è più. La vittoria di Trump è una sorta di consacrazione planetaria del “populismo”. Non a caso, per quel che vale, a giorni, da noi, è anzitutto Salvini. Non c’è più quella “nuova frontiera” che, anche grazie alla suggestione dei vent’anni, negli anni ‘60, avevamo idealizzato. Una stagione che – per quanto, appunto, idealizzata – suscita una nostalgia che, a fronte di ciò che oggi passa il convento, ha la sua ragion d’essere.
Era un’America ancora più razzista di quanto non lo sia, in qualche misura, ancora oggi. Una grande democrazia attraversata da diseguaglianze, miserie e contraddizioni, ma pur capace di credere e coltivare una speranza. Forse è stata una mera coincidenza della sua programmazione, forse una mossa studiata: nel pomeriggio di ieri, nella trasmissione che conduce da qualche tempo su “La 7”, Corrado Augias ha trasmesso ampi stralci dei discorsi che Robert Kennedy tenne, nella campagna presidenziale del’ 68, tragicamente conclusa dal suo assassinio a Los Angeles.
In particolare, ha riproposto il discorso sul PIL, che quell’ anno, negli Stati Uniti, segnava il record di 800 miliardi di dollari. Robert Kennedy affermò – contraddicendo i dogmi del neo-liberismo che tuttora celebriamo – che il PIL spiega tutto ma non rappresenta né la nostra arguzia né la nostra compassione. Soprattutto non spiega le ragioni per cui valga la pena vivere e neppure i motivi per cui si possa essere orgogliosi di essere americani.
Oggi un discorso di questo genere sarebbe accolto con un mezzo sorriso di compassione o, per lo meno, giudicato ingenuo. E forse in questa sorta di cinismo che siamo andati sviluppando sta una delle condizioni che, di fatto, ci rendono così incerti ed insicuri.