Come è spesso capitato, l’amico Nino Labate c’ha fatto leggere una pregevole riflessione su tutto il parlare di Centro. Con il passar del tempo diventata cosa sempre più stucchevole e, persino, fuorviante. Tanto è il peso di una venatura che sa quasi sempre di un qualcosa di “accomodante” . Che, però, non smuove le coscienze, non incita a quell’impegno pubblico richiesto dalle drammatiche condizioni del Paese.

Oggi lo stato dell’Italia spinge più a fare nostre le parole di Teresio Olivelli: “ribelli per amore!”.  E ne troviamo conferma ogni volta che parla Papa Francesco: ritrovare la forza trasformatrice del Vangelo. Altro che il “perbenismo” e il  conservatorismo associato troppo spesso al dirsi cattolici.

Labate con un suo ennesimo intervento in materia, su Il Domani d’Italia (CLICCA QUI), trova tutto il consenso possibile da parte di chi, come noi facciamo da anni, parla di una radicale trasformazione del Paese. Inevitabilmente destinata a modificare i paradigmi correnti della politica, dell’economia, della struttura produttiva e del Lavoro. A partire dal quadro istituzionale e dal superamento di questa cappa opprimente che è diventata la classe dirigente. La quale ignora deliberatamente i messaggi provenienti da oltre la metà degli aventi diritto al voto e che si allontanano sempre più dalle urne. Quelli che hanno capito molto bene la foscoliana lezione sul chi “non lascia eredità d’affetti” e, dunque, completano nei fatti la frase del poeta: “poca gioia ha dell’urna” . Calzante, davvero calzante.

Lo diciamo da sempre: non ha alcun senso parlare di Centro senza prospettare una rigenerazione. La stessa che seppe suscitare Alcide De Gasperi e che, nonostante, tutto trovò successivamente una ripresa di passione e di cose concrete, sulla cui base il Paese divenne, agli inizi degli anni ’90, la quarta potenza industrializzata del mondo. E questa reminiscenza non serve ad un autocompiacimento a scoppio ritardato, e neppure a sognare un tempo che fu, bensì ad indicare il fatto che la trasformazione oggi  la si ottiene con contenuti e metodi nuovi, uscendo dai cliché consolidati.

E non è male attingere all’esperienza del passato. Che fu, ce lo ricorda Nino Labate, “centrismo” o “politica di centro”. Strategie politiche abbondantemente condite  da pulsione popolare e solidale, da partecipazione della gente, nelle urne e sui luoghi di lavoro. Condite anche da riforme come quella fiscale, dell’agricoltura, dal superamento del servaggio esclusivo della dipendenza dalle fonti di energia (e così non ci fu solo Enrico Mattei, perché subito dopo venne il piano nucleare di Ippolito. Lui, non ucciso: gli salvarono la vita, ma distrutto professionalmente ed umanamente).

E’ per questo che vennero il grande piano casa Fanfani, la riforma Vanoni e la Cassa del Mezzogiorno. Questioni che nuovamente si ripropongono chiedendo una ripresa d’energia e di passione pubblica. Cosa da citare, per chiarire che una politica centrista non significa stare attenti a mettersi con gli stessi centimetri distanti dalla destra e dalla sinistra. Bensì si tratta di chiamare a raccolta il Paese attorno ad un baricentro costruito sulla base di progetti diretti a quel benessere generale che è da riequilibrare a favore dei più, non dei meno.

Assieme a problemi irrisolti che si ripropongono, a partire di quello di un Sud ancora troppo distante dal resto d’Italia e dall’Europa, altri emergono. Quello dell’ambiente, dalla dilatazione delle questioni poste dal digitale e dall’Intelligenza artificiale e che ci fanno irrompere in ancora più complesse questioni che riguarda la Persona e le sue relazioni, il senso della Vita, la collocazione e il  più profondo significato della presenza nel mondo di ciascuno essere umano.

Noi siamo convinti da un bel pezzo di tutto questo. Sin da prima che pubblicassimo il Manifesto Zamagni,  servito a sistematizzare questo nostro pensare sulla necessità di una trasformazione (CLICCA QUI). E  ci siamo cimentati, a dispetto delle nostre misere e limitate forze, a riempire di contenuti una prospettiva, un riscatto politico per una larga area culturale e politica assente in maniera organizzata per circa trent’anni. E come dimostrano in gran parte i seimila articoli pubblicati finora, troviamo del tutto limitata la discussione che continua sul Centro. Ma siamo, però, consapevoli della necessità di lavorare indefessamente, e a dispetto dei tempi  correnti, e della miseria politica cui siamo costretti ad assistere, per la creazione di un’area centrale. Quella che, appunto, superando ogni retorica parolaia, caratteristica che accomuna destra e sinistra, metta insieme contenuti e metodi in grado progressivamente di attirare consenso e portare il Paese a superare la distruttiva logica del bipolarismo.

Il problema è di come farlo e con chi farlo. E’ vero che devono essere coinvolte tutte quelle forze, e quei personaggi, che hanno maturato la stessa nostra consapevolezza sulla necessità di uscire dalla tenaglia destra – sinistra. Ma neppure si può pensare che i giochetti parlamentari cui assistiamo, peraltro contando su numeri del tutto ininfluenti, risolvano il problema. Così come, dobbiamo ricordare il continuo gironzolare di tanti che hanno trasformato in una vera e propria professione la loro proclamazione del cattolicesimo politico. Che lo facciano a destra, o a sinistra, dove poi, a dispetto di tutto, continuano a dirsi il centro della destra o il centro del campo opposto, fa solamente sorridere. Perché si va contro ogni evidenza delle cose e dei risultati che (non) si ottengono.

E il chiarimento, attorno ad una politica davvero popolare, è ulteriormente sollecitato da quelle pulsioni elettoralistiche di una parte del Partito popolare europeo che continua a pensare ad un accordo con la destra estrema impegnata ad ammantarsi di un conservatorismo di cui, però, non sa neppure bene dove stia di casa.

Che parte del vecchio, diciamocelo chiaramente, anche di un certo vecchiume aduso ad utilizzare continuamente il  termine “Centro”, come se fosse un inestimabile talismano, non vada del tutto “rottamato” è ovvio. Ma comunque dev’essere spinto a fare un salto di qualità, perché lo stato delle cose lo richiede.

E dunque la verifica è quella sull’esistenza dell’intenzione, anche in vista delle europee, ma anche prima con le elezioni suppletive del collegio di Monza, di gettare il cuore oltre l’ostacolo del giochetto dello schieramento che tutto subordina, a dispetto della necessità di parlare ed operare per la rigenerazione. Solo questo costituirà l’avvio di un processo in grado di far superare risultati elettorali che non vanno oltre un prefisso telefonico dello zero virgola, perché significa davvero dire cose nuove ad un elettorato che non ascolta più nessuno, perché di nessuno si fida più. E come dargli torto?

Giancarlo Infante

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