Nella discussione attualmente in corso sulle misure legislative duramente repressive assunte (per ora sulla carta) nell’ambito del cosiddetto Decreto Caivano e sui problemi della criminalità e della devianza giovanile e minorile, portate sui “media” dai recenti fatti di cronaca, ci stiamo forse dimenticando qualcosa di essenziale.
Non possiamo credere davvero che la lotta contro la criminalità diffusa e soprattutto giovanile possa essere identificata con la mera occupazione delle “zone franche” da parte delle forze dell’ordine o con la “bonifica” delle aree infestate dal virus della criminalità. Sarebbe una semplificazione distruttiva che ignora oltre il buon senso, la nostra tradizione costituzionale, culturale, giuridica e religiosa. Può esser utile allora in questo caso dare voce ad un pensatore ottocentesco, di area liberale cattolica, che dovrebbe almeno piacere ad una parte dei governanti attuali, che, a parole, si riconoscono in una forma di “liberalismo”, anche se di stampo un po’ anomalo, un liberalismo senza la cultura del limite, cioè senza una delle sue basi essenziali.
Sarebbe interessante sapere cosa pensano queste persone delle parole dell’ abate, pedagogista, storico e giornalista Raffaello Lambruschini ( 1788-1873) pubblicate nella Antologia di Viessieux nel luglio 1832. Quasi due secoli sono passati da allora, l’italiano in cui si esprime l’ abate è certo pre-manzoniano, ma chiarissimo. Nel 1832 non si faceva ricorso alle droghe e non c’erano i social, ma vi erano strumenti seduttivi e corruttivi ( lusinghe del gioco) esattamente analoghi dal punto di vista funzionale a quelli di oggi. Il brano che potrebbe benissimo essere scritto anche oggi, mostra una sensibilità straordinaria nell’analisi dei rischi dell’ approccio puramente penalistico al problema della devianza minorile. Punire ….e poi ? E’ la prima domanda che ci siamo posti. Ma non basta porsi questa domanda. Lambruschini va oltre. Punire, per quale fine? E a che condizioni è lecito e utile “punire”, specie quando si tratta di minori? Esiste purtroppo anche una pena che è controproducente, addirittura criminogena. Forse bisognerebbe dire: punire….e prima? La punizione non dovrebbe essere preceduta, o almeno non dovrebbe essere accompagnata, da misure di prevenzione e di “cura” se vogliamo rispettare la realtà umana ed il dettato costituzionale?
Lasciamo però la parola al testo ottocentesco, che non necessita di alcun commento, ma solo di attenta riflessione. (grassetti nostri, non di Lambruschini): “ Già troppo si sono indebolite tra gli uomini le idee del vero diritto, delle leggi eterne della morale e della bontà: non le indeboliamo ancora di più. Chi si sente oggi la mano robusta, già troppo la stende prontamente a ferire, ad abbattere; non incoraggiamo questo regno della forza, non risuscitiamo i principi di espiazione dei delitti, di vendetta, della pubblica giustizia, e molto meno di privata vendetta; principi che già troppe vite umane hanno mietute, e già troppo hanno profanato il santuario della giustizia e della religione…. Ecco l’idea filosofica, salutare, cristiana, che bisogna formarsi del diritto di punire. Il potere sociale, in qualunque mano esso risieda, è rispetto ai membri di uno stato quel che è il potere paterno ( da chiunque sia esso esercitato) rispetto ai membri di una famiglia. Un potere, 1° di conservazione, 2° di educazione: potere che è insieme un obbligo; potere che deve essere tranquillo, illuminato, imparziale: l’errore, la passione, l’ineguaglianza lo snaturano, e lo rendono una tirannia. Un padre non può reprimere uno dei suoi figli, se non perché gli altri non ne siano molestati e perché egli medesimo si corregga. Questi due fini, che sono lo scopo e la giustificazioni della penitenza, ne sono anche la misura. Tutto quello che è di troppo, per conseguire nella data circostanza l’intento, è una irragionevolezza, una durezza che produce l’effetto contrario dell’effetto voluto, cioè l’insubordinazione all’autorità paterna, la discordia tra i fratelli, la scostumatezza del malamente punito. Così appunto nella società…
E’ colpa della società se vi sono degli scellerati quali si dipingono; è colpa della società se, sottoposto da lei a una necessaria punizione, rimangono scellerati, e forse lo divengono ancora di più. Eh! Non occorre volerci lavare da questa macchia. Su via diciamolo: questo iniquo, da noi maledetto nacque egli tale, o divenne? E che aiuti egli ebbe a noi per non divenirlo? Nato nella povertà, figlio di genitori ignoranti, abietti, viziosi quali li ridusse o li lasciò la dimenticanza e la disamorevolezza della generazione anteriore , fu egli da noi assistito nella sua infanzia? Chi si prese cura della sua giovinezza, chi lo istruì? Chi svolse la sua ragione, chi gli parlò dei suoi doveri? Chi gli apprese un mestiere, chi gli porse i mezzi di guadagnarsi il pane? Sviato da altri già guasti, sedotto dalle lusinghe del gioco ( al quale noi pubblicamente e legalmente lo abbiamo invitato) , corrotto da sfoghi di lascivia che noi autorizziamo…che è egli divenuto? Quel che poteva; quel che noi abbiamo fatto di tutto perché divenisse. Mietiamo dunque quello che abbiamo seminato. Ma poiché il miserabile è caduto sotto il peso della sua ineducazione, e si è fatto reo di alcuna colpa, noi lo abbiamo preso, anche prima di condannarlo, lo abbiamo gettato in una carcere in mezzo a scellerati peggiori di lui; là lo abbiamo tenuto mesi ed anni ad una scuola di infernale reciproco insegnamento, di dove, o dichiarato innocente, è tornato nella società infetto d’una lebbra mortale; o mandato alle galere, è stato come se da una scuola primaria di delitto passasse all’ Ateneo.
E’ colpa della società se vi sono degli scellerati quali si dipingono; è colpa della società se, sottoposto da lei a una necessaria punizione, rimangono scellerati, e forse lo divengono ancora di più. Eh! Non occorre volerci lavare da questa macchia. Su via diciamolo: questo iniquo, da noi maledetto nacque egli tale, o divenne? E che aiuti egli ebbe a noi per non divenirlo? Nato nella povertà, figlio di genitori ignoranti, abietti, viziosi quali li ridusse o li lasciò la dimenticanza e la disamorevolezza della generazione anteriore , fu egli da noi assistito nella sua infanzia? Chi si prese cura della sua giovinezza, chi lo istruì? Chi svolse la sua ragione, chi gli parlò dei suoi doveri? Chi gli apprese un mestiere, chi gli porse i mezzi di guadagnarsi il pane? Sviato da altri già guasti, sedotto dalle lusinghe del gioco (al quale noi pubblicamente e legalmente lo abbiamo invitato) , corrotto da sfoghi di lascivia che noi autorizziamo…che è egli divenuto? Quel che poteva; quel che noi abbiamo fatto di tutto perché divenisse. Mietiamo dunque quello che abbiamo seminato. Ma poiché il miserabile è caduto sotto il peso della sua ineducazione, e si è fatto reo di alcuna colpa, noi lo abbiamo preso, anche prima di condannarlo, lo abbiamo gettato in una carcere in mezzo a scellerati peggiori di lui; là lo abbiamo tenuto mesi ed anni ad una scuola di infernale reciproco insegnamento, di dove, o dichiarato innocente, è tornato nella società infetto d’una lebbra mortale; o mandato alle galere, è stato come se da una scuola primaria di delitto passasse all’Ateneo.
E questo sciagurato per cui la società non ha fatto nulla, si meraviglierà ella se ei la detesta, se di crede da lei provocato a guerra, se cerca di spezzare i suoi ferri, e di lanciarsi a rubare ed uccidere? Io non fo qui la scusa dei delitti. Io sono il primo a riconoscere che vi ha delle basse anime che commettono opere inique e queste opere le condanno, le detesto ma soggiungo che prima di dire: facciamo la caccia ai malfattori come si fa ai lupi, uccidiamoli perché non fuggano, bisogna aver detto: procuriamo che i malfattori cessino di esserlo. E più che dirlo bisogna averlo fatto. Quando si sarà fatto davvero, quando la società potrà rendere a se medesima la testimonianza di non aver mancato al suo debito , allora ella pensi ad esercitare il suo diritto. Fino ad allora io dirò: chi non ha colpa si faccia innanzi e scagli la prima pietra. ” (R. Lambruschini Lettera al sig. Viessieux in: “Antologia” t.XLVII, luglio 1832, fasc. 139)
Se qualcuno ritiene di avere i titoli per scagliare la prima pietra, dunque lo faccia pure. Ma se si accorge di non avere quei titoli, che prima contesti l’argomentazione di Lambruschini, punto per punto, se ci riesce.
Umberto Baldocchi