Nel deludente clima, tutto ideologico, che si sta affermando in Italia, nella forma e nei contenuti del confronto-scontro tra la Chiesa cattolica e il variegato mondo laicista sul delicato tema dell’omofobia, colpisce l’ostinata chiusura al dialogo degli attori in campo.
Abbiamo assistito alla sottovalutazione dello spessore antropologico della questione e a pronunciamenti scontati sulla non confessionalità dello Stato italiano e sulla libertà di legiferare del suo Parlamento unitamente a sgangherate minacce contro lo spirito concordatario che ha ispirato i rapporti amichevoli tra Stato e Chiesa nel nostro Paese. Si ha l’impressione di un revival di anticlericalismo, appena sopito dalla generale preoccupazione della pandemia, comunque sordo e disattento verso i problemi decisivi di questo tempo che sfidano fede e ragione a ritrovare il senso del vivere insieme nella cornice di un comune destino. C’è nostalgia per i grandi dialoghi di un tempo come quando il filosofo Habermas e il Cardinale Ratzinger si incontrarono nel 2004 a Monaco, nell’occasione del convegno dedicato ai fondamenti morali e prepolitici dello Stato liberale. L’ultimo grande della scuola filosofica di Francoforte, definitosi “ateo metodico”, esprimeva interesse e apprezzamento per il confronto apertosi con il cardinale tedesco, custode della dottrina della fede della Chiesa cattolica, apertamente critico verso il relativismo e le derive della modernità ma fedele allo spirito di Fides et Ratio di Papa Wojtyla.
I due “intellettuali” tedeschi partivano comunque dalla condivisione del paradosso del giurista tedesco Bòckenfòrde: lo Stato liberale si nutre di premesse che esso da solo non può garantire. Dunque nell’accettazione comune delle libertà democratiche quale rapporto si poneva tra la regola aurea della maggioranza e la ricerca della verità, se è vero che anche le maggioranze, nelle crisi della storia, hanno dimostrato di sbagliare clamorosamente? “Il semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore” ha dato poi sviluppo al suo pensiero nelle tre encicliche del magistero petrino firmato Benedetto XVI (2005-2013), che una pubblicistica superficiale legge come preziosa parentesi messa in soffitta dal pontificato di Francesco. Gli elementi di continuità appaiono invece numerosi se solo si considera che carità, fede e speranza, tanto care a Benedetto, tornano in continuazione nel magistero e nelle catechesi di Francesco, tanto più nelle luci oscurate dal tempo di pandemia. Difficile però sarebbe non leggere, dopo il 2013, un cambio di paradigma nel rapporto tra Mondo e Cristianesimo che si fonda sulla consapevolezza di una vera e propria nuova epoca della vita planetaria, apertasi nell’incertezza causata dalle crisi combinate dell’economia e dei cambiamenti climatici, dalle grandi migrazioni e dalla terza guerra mondiale a pezzi.
Con buona pace della disattenzione di gran parte del mondo cattolico, Papa Francesco è entrato in questo cambio d’epoca convinto che ci sia all’origine una seria crisi culturale mondiale e che sia fondamentale il dialogo ecumenico e interreligioso, e il confronto con i giovani e gli intellettuali del nostro tempo anche in coincidenza dell’apocalisse del Coronavirus. Risulta per esempio sorprendente l’effetto partecipazione di giovani di tutto il mondo alle giornate di Economia di Francesco o l’osmosi linguistica che si può rilevare , per esempio, tra Bauman, Morin e Papa Bergoglio. Zygmunt Bauman(1925-2017) si è sempre definito un “semplice sociologo” polacco, di origini ebraiche ma ateo, un socialista di tendenza marxista, estraneo allo stalinismo e ormai allo stesso comunismo, non un futurologo e neppure un politico, un emigrato che si stabilisce in Inghilterra, a Leeds. Edgar Morin, pseudonimo di Edgar Nahoum, di famiglia ebraica, sociologo di formazione marxista, espulso dal partito comunista francese e approdato a quello socialista, è nato a Parigi nel 1921 e ha compiuto 100 anni l’8 luglio c.a. ricevendo auguri calorosi da parte di Papa Francesco. I due intellettuali, ormai di chiara fama internazionale, seguendo diversi cammini di ricerca, hanno vissuto una gran parte del XX secolo e i primi decenni del XXI, transitando attraverso le guerre intra-europee, scontrandosi con il nazismo e la catastrofe della Shoah, distanziandosi dallo stalinismo, simpatizzando con il ‘68 e auspicando il tempo nuovo dell’Europa dopo la caduta del muro di Berlino, e poi scoprendo le ondate del fondamentalismo islamico, inaugurato con l’attentato aereo alle Torri Gemelle. Non si erano illusi che dopo il 1989 fosse giunta la fine della storia, preconizzata da Fukuyama , attenti invece al nuovo incubo delle identità nazionali, dei suprematismi di ogni colore, dei populismi e dei sovranismi sorti dalle delusioni del neoliberismo e della globalizzazione.
Bauman è l’attento lettore della modernità e della post-modernità, della società liquida che diventa sinonimo di consumismo ossessivo e di produzione di scarti, di paura dell’insicurezza e delle genti che vengono da fuori, gli estranei. Una narrazione triste e preoccupata perché inchiodata nella contraddizione tra la voglia di comunità e di sicurezza e la soluzione dei problemi che si intravedono solo oltre i confini delle nazioni se non si vuole cadere vittime della cecità morale e dei nuovi incubi, l’incertezza e la paura. E da qui la sorpresa e la svolta! Il 20 settembre 2016, ad Assisi, Bauman ha incontrato papa Francesco e in conclusione al loro colloquio ha aggiunto: “Ho lavorato tutta la vita per rendere l’umanità un posto più ospitale. Sono arrivato a 91 anni e ne ho viste di false partenze, fino a diventare pessimista. Grazie, perché lei è per me la luce alla fine del tunnel”. Il papa gli ha risposto: “nessuno mai mi ha detto che ero in fondo ad un tunnel” E Bauman ha concluso: “Sì, ma come una luce”. Due uomini dalla storia molto diversa si sono incontrati in un punto critico e decisivo: la critica alla globalizzazione economica. Su questo tema papa Bergoglio aveva esordito nell’Evangelii Gaudium: “La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia manifesta i propri squilibri e, soprattutto, la grave mancanza di orientamento antropologico che riduce l’essere umano a uno solo dei suoi bisogni: il consumo”. E Bauman sulla soglia della fine della sua vita ci ha lasciato un testamento che è più di un grave ammonimento: “ Noi, abitanti umani della Terra, siamo, come mai prima d’ora, in una situazione di aut aut : possiamo scegliere se prenderci per mano o finire in una fossa comune”.
Morin, il sociologo della complessità e l’autore della monumentale opera in 6 volumi “Il metodo”(1977-2004) è capace di dare alle stampe nel 2019 il volumetto “La fraternità, perché? Resistere alla crudeltà del mondo”, nel 2020 “Cambiamo strada. Le 15 lezioni del Coronavirus” e nello stesso anno di scrivere la prefazione al saggio del filosofo italiano Mauro Ceruti “Sulla stessa barca. La Laudato sì e l’umanesimo planetario”. Se ricordiamo che la Fratelli tutti è stata firmata dal papa ad Assisi il 3 ottobre 2020, sorge spontanea la sorpresa di riscontare straordinarie coincidenze linguistiche e temporali tra il Magistero di Francesco e l’opera di Morin. Questo avvenimento che senso ha e cosa può significare per il dialogo e l’incontro tra cultura cristiana e cultura laica nel tempo dei grandi rischi e delle grandi sfide per l’umanità? Morin è convinto che “la planetizzazione significa ormai comunità di destino per tutta l’umanità. La coscienza della comunità di destino ha bisogno non solo di pericoli comuni ma anche di un’identità comune che viene da un’entità paterna e materna, concretizzata dal termine patria, e che porta alla fraternità milioni di cittadini che non sono affatto consanguinei”.
Ecco che cosa manca perché si compia una comunità umana: la coscienza che siamo figli e cittadini della Terra-Patria. Non riusciamo ancora a riconoscerla come casa comune dell’umanità”. Il cammino di Morin non è precisamente quello di Francesco nella Fratelli tutti che parte dalla parabola del Buon Samaritano per giungere alla nozione di prossimità e di una fratellanza che non ha un carattere orizzontale ma verticale perché nasce dall’amicizia con Cristo che ci ha insegnato “il Padre nostro”: per i cristiani si tratta sempre di vivere il mistero di diventare figli nel Figlio che ci ha fatto conoscere la misericordia del Padre. Ma se le strade di Morin e di Francesco si incrociano nella ricerca del fratello allora possiamo sperare che sia praticabile un nuovo umanesimo rigenerato. ”L’umanesimo rigenerato rifiuta l’umanesimo della quasi divinizzazione dell’uomo, teso alla conquista e al dominio della natura. Non dobbiamo pensare di trasformare l’uomo in un essere perfetto o quasi divino. Ma possiamo tentare di sviluppare ciò che di meglio c’è in lui, ossia la sua facoltà di essere responsabile e solidale”; questo è Morin ma l’aveva auspicato anche Gandhi : “ Sii tu il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”. C’è da confidare che Papa Francesco continui in questo dialogo perché ci ha sempre raccomandato di fondare i nostri comportamenti nell’amicizia sociale e di non illuderci di fare da soli anzi di sostituire l’io con il noi, perché siamo tutti “nella stessa barca”.
Antonio Secchi