Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno un tratto in comune: ambedue scommettono le loro fortune sulla divisione del Paese. Ne hanno dato una plastica dimostrazione, martedì della scorsa settimana, nel dibattito in aula a Montecitorio.

Il tono eccitato dei loro interventi, le accuse incrociate, le urla e gli strepiti mostrano un atteggiamento orientato – dall’una e dall’altra – a presidiare ciascuna il proprio territorio, tracciandone i confini, preservando da ogni possibile incursione dal campo avverso, escludendo ogni possibile spazio di interlocuzione. Quasi temessero di contaminarsi l’un l’altra.

Le posizioni che via via assumono, i contenuti dell’azione politica di ambedue diventano, in larga misura, anzitutto, funzionali allo scontro e smarriscono quei margini di ragionevolezza che dovrebbero rappresentare lo spazio sul quale esercitare una qualche modalità di confronto non pregiudiziale. Valgono, anzitutto – vedi le cosiddette “leggi-manifesto” – come termini che segnano il perimetro delle rispettive appartenenze.

Ognuno dei due poli si regge sulla demonizzazione dell’altro e l’unico punto di condivisione è l’accettazione di questa modalità di rapporto, reciprocamente conveniente. Senonche’, a furia di insistervi, questo atteggiamento si trasforma in un abito mentale, in una chiave di lettura e d’interpretazione della realtà che, via via, la deforma e, per di più, non solo si abbarbica a personaggi ed interpreti della vicenda politica, ma concorre a fare costume. Cioè progressivamente finisce per diventare negativamente pedagogica, al di là dei confini del mondo politico, soprattutto nei confronti dei più giovani. Si tratta, insomma, di un modo di porsi, di confrontarsi, di comunicare che divide il Paese e giunge, infine, a divaricate perfino la coscienza e la mente delle persone che vengono indotte a pensare, quasi necessariamente, nei termini di polarità oppositive.

Forse un esperto di “politicamente corretto” sosterebbe che non sia il caso – dal momento che le signore hanno diritto, non meno dei maschi, ai loro alterchi – di sperare che, trattandosi, appunto, di signore, ci si possa attendere un linguaggio più argomentato, meno urlato, più “pensato”, meno apodittico.

In fondo, il “genio femminile” è ricco di quell’empatia con la realtà colta nella sua più immediata e concreta evidenza che dovrebbe correggere e compensare l’attitudine dei maschi a smarrirsi, spesso e volentieri, in un’astrazione concettuosa che non aiuta a chiarire il quadro e la consistenza delle questioni in gioco. Questo passa oggi il convento.

Domenico Galbiati 

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