È evidente che la particolare attenzione dell’Unione europea al Sud Italia è dettato dall’esigenza di favorire un ineludibile sviluppo dell’area meridionale italiana e fortificare così l’intera economia del Paese. Il tutto è inscritto in una visione di inclusività sociale, economica, politica e geopolitica di ampio respiro che l’Europa comincia ad avere per i suoi confini meridionali. Si vuol contribuire a superare l’angusto orizzonte di quelle politiche nazionali per il Sud, post Cassa del Mezzogiorno, senza anima, dette “di coesione”, che si sono avvicendate dalle fine degli anni ’90, e che, invece, hanno accentuato il divario Nord-Sud. Esse, di converso, hanno pure comportato, nell’immaginario collettivo nazionale, un rafforzamento di un errato pessimismo sulla possibilità di recupero delle realtà del Sud.
Lo Stato può sottrarre spazio alla devianza sociale, alla criminalità solo creando coesione ed inclusione sociale, offerte di lavoro, stabile e dignitoso perché sono le diseguaglianze, che favoriscono riluttanza civica e l’espansione della criminalità
Questo atteggiamento si ritorce anche sul Centro-Nord, sempre più ripiegato su sé stesso per inseguire, anche con le parole dei suoi politici, miopi soluzioni della propria crisi, con pretese di Autonomia rafforzata. Rendiamocene conto una buona volta che il triste primato dell’Italia, come grande malato dell’Europa, scaturisce, non solo dalla situazione del Sud, ma, anche, e purtroppo, dal crescente ritardo del Centro-Nord rispetto al resto della EU. È questa la debolezza con la quale l’Italia è arrivata al trauma della pandemia e, poi, alla guerra in Ucraina. La regressione già toccava indistintamente, e da oltre venti anni, tutte le Regioni. Nella graduatoria per reddito pro-capite delle 280 regioni dell’UE a 28 Paesi, la Lombardia era già scivolata dal 17° posto del 2000 al 44° posto nel 2018 e così l’Emilia-Romagna dal 25°, al 55°; il Veneto dal 36° al 74°. Queste evidenze EUROSTAT smentiscono il mito di un Nord tra le macroregioni più dinamiche d’Europa, perché è vero, che c’è un divario Nord-Sud in forte peggioramento dal 2000, ma c’è anche, e purtroppo, un inedito significativo “secondo divario” con l’UE, che tocca le parti forti del Sistema Italia.
L’opportunità di contare sull’apporto di un Mezzogiorno, rianimato e attivo, è una necessità per tirar fuori l’Italia tutta da una deriva di iposviluppo, non una concessione di facciata, che termina là dove poi si devono erogare i fondi.
Giungono da lontano le disuguaglianze del Sud: Emanuele Felice nel suo saggio “Perché il Sud è rimasto indietro” (2020) individua quattro insufficienze: mobilità e connettività, sistema creditizio, istruzione e reddito pro capite e queste perdurano fin dall’Unità d’Italia. E tuttavia al momento dell’Unità, pur presenti, non erano così pronunciate come lo sono ora! Tra le due guerre mondiali, che comprende il ventennio fascista (1913-50), e poi nell’ultimo trentennio, che si è consumata la tragedia. Nel secondo dopoguerra (1950-90) con la creazione della Cassa del Mezzogiorno si è avuto l’unico, vero “intervento straordinario” per il Sud attraverso due direttive integrate e complementari: quella diretta di opere pubbliche di grande respiro (strade, infrastrutture, bonifiche e non solo) e quella indiretta con l’accompagnamento dell’imprenditoria industriale. L’azione della Cassa, concreta e tecnologica, è da considerare la più consistente politica di sviluppo realizzata in tutto l’Occidente per la mole di opere pubbliche realizzate e dell’entità di risorse, umane, finanziarie e tecnologiche mobilitate.
Dopo, però, la crisi petrolifera del ’73 si sono sempre ridotti e dispersi e dirottati i fondi fino allo scioglimento della Cassa stessa. A questa con particolare ipocrisia si è fatta seguire quella politica di “coesione”, fallita, che è stata richiamata precedentemente.
Siamo arrivati alla svolta inclusiva della politica comunitaria europea, al PNRR e dobbiamo constatare che ogni approfondimento sul PNRR, purtroppo, deve partire da un dato di fatto: il nostro Mezzogiorno ha indicatori economici peggiori di qualsiasi parte di ogni stato comunitario della UE e le quattro insufficienze storiche permangono, come macigni.
Le domande che ci dobbiamo porre, a questo punto, sono primariamente strategiche: innanzitutto come riuscire ad invertire questa realtà che fa dell’Italia il malato d’Europa attraverso una destinazione efficacia ed efficiente delle risorse del Piano. Le risposte possono essere due non necessariamente contrapposte perché , anzi, è auspicabile trovare una integrazione, anche culturale per operare in sinergia: una che tende ad avvicinare le aree industriali del Nord alla realtà Mitteleuropa, tanto cara alla retorica degli industriali nordici, ma non esaustiva ed una seconda, che scaturisce dalla nuova prospettiva euromediterranea, di attivare un secondo motore economico di “logistica a valore” nel Sud (ferrovie AV/AC, porti, retroporti-ZES) che affianchi il polio trasformativo del Nord, ed intercetti le merci provenienti da Suez e valorizzi anche l’agricoltura ed il turismo.
Ulteriore domanda è, poi, di tipo tattico: gli Enti locali, in particolare del Sud, hanno la capacità tecnica, umana e finanziaria per questa enorme quantità di investimenti demandati a loro (oltre i 70 miliardi secondo UPB). L’esito del Piano dipenderà in misura cruciale dal loro rafforzamento, qualitativo e quantitativo.
I Comuni italiani, ad esempio, hanno drammaticamente diminuito del 21% il loro personale negli ultimi 10 anni. Nel Meridione la riduzione è una volta e mezza maggiore di quella nazionale e il personale, poi, è molto anziano, digitalmente poco alfabetizzato e di istruzione modesta (meno di uno su cinque è laureato). I comuni metropolitani, come Napoli o Palermo, sono oberati da un forte indebitamento, che non permette le necessarie assunzioni. È indispensabile per tutte le Amministrazioni locali, specie del Sud, un supporto tecnico, le cui modalità sono ancora da ben definire da parte del Governo per assicurare una adeguata “governance” dei bandi, i tempi e il livello qualitativo dei progetti.
Ci vuole, per il Sud, una “nuova” Cassa del Mezzogiorno e i tempi sono brevi. Tuttavia, nel Sud ci sono risorse adeguate: vanno richiamate e responsabilizzate. Tra la Gabina di regia del Governo e la realtà degli Enti locali ci vogliono corpi intermedi, che li connettano: dobbiamo pensare ad un Cassa del Mezzogiorno, non strutturata (i tempi non ci sono), ma “diffusa” sul territorio.
Dobbiamo pensare alla ricchezza delle Università, dei numerosi centri del CNR e di altri Enti di eccellenza diffusi nel Meridione, che possono rispondere in tempo reale e che, rimodulati, rindirizzati ed interconnessi nella funzione, diventino una struttura intermedia qualificata ed all’altezza della bisogna, diffusa sul territorio. In questo possibile cambiamento epocale le Università devono fare meno Accademia e mobilitare Docenti e giovani Allievi, che acquisiranno grande esperienza e benefici anche per il futuro, nell’affiancare il territorio. Come la ex Cassa, devono produrre progetti modulari, per esempio scuole, asili, adattabili alle singole, specifiche realtà: si può rispondere a tutte le esigenze del Piano e affiancare gli Enti locali nel gestire la realizzazione non solo tecnica, ma anche amministrativa degli interventi straordinari e ordinari di sviluppo. Omogenizzando i progetti la competizione dei bandi avverrebbe non sulla loro qualità, ma sulla priorità delle necessità di tali opere per le specifiche mancanze del territorio. È un appello alla terza missione delle Università e degli altri Enti di eccellenza, considerando il fatto, che i fondi per le applicazioni professionali sono ben già previsti dal PNRR.
Bisogna far appello all’orgoglio dei Meridionali, ai loro tanti talenti, che devono essere messi a frutto per il bene comune.
Alfonso Barbarisi