Il commento più estremo è attribuito ad António Guterres: “me ne vado da Roma deluso”. Adesso c’è il timore che il Segretario generale dell’Onu possa dire lo stesso alla conclusione del Cop26 organizzato a Glasgow sui cambiamenti climatici.
Eppure il G20 italiano è stato un successo organizzativo riconosciuto da tutti. Davvero un evento molto scenografico. Mentre i due grandi illustri ospiti fisicamente assenti, il cinese Xi Jinping e Vladimir Putin, hanno portato la loro voce solo telematicamente, gli altri “grandi” ci hanno fatto assistere alle espressioni di un grande calore nelle relazioni interpersonali. Per quanto riguarda i risultati concreti si è ribadita l’intenzione di operare affinché per la metà del secolo in corso, data esatta rimasta nel vago, si stabilizzi l’aumento del riscaldamento globale al grado e mezzo Celsius. Non sarà più assicurato al carbone il sostegno di provvidenze pubbliche. Confermata, inoltre, la decisione sull’introduzione della tassa fissa al 15% per le società multinazionali. Si spera così che, per quanto in misura ridotta, i grandi colossi economici mondiali non riescano più ad approfittare delle maglie larghe per sfuggire ai sistemi fiscali nazionali e per non pagare tasse da nessuna parte.
E’ stato molto bello vedere, fin nei minimi dettagli, come Presidenti della Repubblica e Primi ministri, loro mogli e loro mariti, abbiano passato alcuni giorni a Roma. Godendo tra l’altro di quelle “ottobrate” che continuano a baciare la capitale italiana, a dispetto di tutti i cambiamenti climatici che tanto preoccupano scienziati e semplici cittadini. Chi si attendeva dall’evento romano chissà quale decisione epocale facilmente finisce per condividere l’estremo giudizio sommario che qualcuno ha sintetizzato con la frase:” le uniche cose di rilievo sono state le due udienze papali di Francesco con il Presidente Usa, Joe Biden, e il Primo ministro indiano, Narendra Modi”. La prima, perché è servita a riscaldare un po’ i rapporti del Vaticano con gli Usa, dopo quelli molto freddi intercorsi nel quadriennio Trump; la seconda, per un non affatto scontato invito ufficiale giunto al Pontefice da Modi per una sua visita in India; perché potrebbe davvero segnare un clima nuovo per la non facile coesistenza di diverse fedi religiose nel sub continente indiano.
Nessuno, però, a partire da Mario Draghi si aspettava soluzioni taumaturgiche dall’incontro romano. Troppo lunga la sua esperienza internazionale per non sapere che l’importante è, almeno, di non fare passi indietro sui percorsi intrapresi e di come anche il limitarsi a ribadire precedenti dichiarazioni di principio abbia la sua importanza. Il riferimento è soprattutto all’impegno sui cambiamenti climatici. Nei giorni scorsi abbiamo dato conto dei ritardi che già oggi sono registrati ( CLICCA QUI ) e, dunque, della dura realtà delle cose che rende davvero problematico il mantenimento della soglia dell’ 1,5°C visto che secondo alcuni, in realtà, siamo attorno ai 2,7°C( CLICCA QUI ).
Da Roma, il testimone è passato, specificamente su questa materia, a Glasgow, dove si terrà, fino al 12 novembre prossimo, l’importante Cop26 ( CLICCA QUI ) cui parteciperanno i rappresentanti di tutti i paesi del mondo. E’ evidente che in quella sede si rischia di avere ancora minore omogeneità di giudizio e, probabilmente, emergeranno più profonde divaricazioni.
Nel 1989 partecipai a Londra a quella che può essere considerata la prima conferenza mondiale sulle emissioni di CO2 nell’atmosfera. Grandi erano le attese. Da quell’appuntamento mondiale si avviò tutto il percorso destinato a sfociare nel famoso accordo di Kyoto e a portare ad un modo nuovo di affrontare le globali questioni ambientali, invece che affidarsi al buon cuore dei singoli stati. Ma fu un sostanziale fallimento.
Nel corso dei giorni di preparazione, tutto sembrava andare per il meglio al Queen Elisabeth II Center di Londra, dirimpettaio sia della Westminster Abbey, sia del Big Bang del Parlamento britannico. I più importanti giornali dei paesi avanzati davano per certa la soluzione di un problema che già allora appariva assolutamente fondamentale. Poi, tutto caracollò a seguito degli interventi dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, in particolare di Cina ed India. Ma tutti ben sapevamo come le loro posizioni coincidevano con la malcelata compiacenza di importanti ed estesi settori industriali del mondo più ricco che vedevano nelle modifiche d’apportare ai loro processi produttivi un oggettivo attacco alle proprie aspettative di profitto.
Andando all’essenza delle cose, il discorso che venne dai paesi allora non sviluppati, o in via di sviluppo, era che non si trovavano nella condizione di saltare direttamente all’utilizzo delle nuove tecnologie, di molto più costose rispetto a quelle immediatamente disponibili e, per di più, quasi esclusivamente nelle disponibilità dei paesi ricchi. Era quindi necessario per loro seguire lo stesso percorso che nei decenni precedenti era stato degli Stati Uniti, dell’Europa, del Giappone e di altre ristrette aree del mondo più evolute. In quei giorni circolava molto l’esempio dei frigoriferi. Cina e India, ebbero modo di ricordare che per loro, come per gli altri paesi più poveri, già la sola più ampia diffusione dei frigoriferi semplici e tradizionali richiedeva un impegno eccezionale e costituiva un loro obiettivo al fine di assicurare anche ai loro popoli quei livelli minimi di qualità della vita di cui godevano esclusivamente i paesi occidentali e, fino ad allora, preclusa al resto del mondo.
Ecco, c’è la possibilità, e molti elementi purtroppo lo fanno ritenere, che a Glasgow si ripeta, sia pure in termini meno dirompenti, l’esperienza del Queen Elisabeth Center di trentadue anni fa. E’ evidente che da allora molte cose sono cambiate. Ma certamente non l’attitudine di molti paesi occidentali a guardare le cose dalla loro esclusiva prospettiva. Sulla base dell’illusione che discorsi di principio, maturati però esclusivamente all’interno del proprio contesto, siano capaci di modificare i termini di una questione destinata, invece, a tenere inevitabilmente conto delle condizioni antropologiche, culturali, finanziare e organizzative in cui si ritrovano la stragrande maggioranza delle altre nazioni.
Così, se Boris Johnson, il Primo ministro britannico che al Cop26 scozzese farà gli onori di casa, mette le mani avanti dicendo” Se fallisce Glasgow, fallisce tutto ” ( CLICCA QUI ), c’è chi gli risponde: ” Sorry Boris, but without China the Cop is a flop ” ( Scusa Boris, senza la Cina sarà un fallimento CLICCA QUI ).
Per concludere, anche gli appuntamenti che inevitabilmente seguiranno, perché questa è vicenda che non si conclude certamente qui, confermeranno che gli accordi necessari ed indispensabili, cosa che nessuno nega, si raggiungeranno se ci sarà la consapevolezza che la “transizione” ha dei costi e che non si può pensare di scaricare tutto su chi quei costi non è in grado di sostenere. E questo vale per gli stati come per i popoli, ma anche per una buona parte di chi vive nei cosiddetti paesi evoluti al cui interno esistono profondi disequilibri e diseguaglianze.
Così, la transizione ambientale non è solamente un qualcosa da considerare sotto il profilo dell’introduzione di nuove tecnologie meno inquinanti. Piuttosto, come un’occasione per indirizzarci verso la creazione di un mondo più giusto, più equo e più solidale. C’è dunque un legame stretto, e questa è la conclusione generale più importante da cogliere nel G20 di Roma, tra la “transizione” e il sistema finanziario e il sistema fiscale mondiali, ma non si è fatto ancora abbastanza.
Giancarlo Infante