Siamo felici di presentare ai lettori di INSIEME, in ricordo di Dante morto il 13 Settembre 1321, alcune riflessioni estratte dalla pagina introduttiva del testo in corso di stampa “La Divina Commedia in Italiano d’oggi- Paradiso” di Nino Giordano e Fabrizio Maestrini per la casa editrice LEF di Firenze
Fa parte del pensiero cristiano e del patrimonio spirituale della Chiesa stessa la costante attenzione al rapporto fra la fede e la società, incluso il modo in cui la fede si esplica nella società. Il papa emerito Benedetto XVI, che ha interrotto il silenzio monastico con un’intervista, per iscritto, alla rivista “Herder Korrespondenz”, ha affermato che occorre la testimonianza, che se “la fede è solo ufficiale”, se si ha “una fuga nella pura dottrina” che sarebbe “completamente irrealistica”, la fede stessa è a rischio.
Proprio perché “una dottrina che esistesse come una riserva naturale separata dal mondo quotidiano della fede e dai suoi bisogni, sarebbe allo stesso tempo una rinuncia alla fede stessa”. Dante che usa la parola, la poesia anche per lanciare invettive, per denunciare e far sì che bisogna “pur grattar dov’è la rogna” (XVII, v. 129), è un esempio assoluto del come un cristiano possa agire, esplicitando la propria fede in rapporto al mondo. Dante è sicuro di sé e di quello che dice, perché ha la ferma e incrollabile convinzione che ciò che sta facendo nel comporre la sua opera sia un atto di fede. Recarsi tra le stelle e ottenerne ratifica mediante il colloquio-esame con san Pietro, significa conferire con la suprema autorità religiosa, che proprio dal cielo esercita persuasione morale e influenza sociale. È un affidare il riconoscimento della bontà della propria coscienza di fedele a colui al quale i papi suoi successori devono sempre prestare attenzione. In questo modo, le parole dure di Dante valgono da antidoto alla sfiducia, al fatalismo, all’inerzia: a tutti gli atteggiamenti pervasi dallo sconforto e dal credere che le cose non possano mai cambiare.
Quando è il tempo -e forse lo è sempre- del coraggio, la parola di Dante torna utile e salutare. Papa Francesco, nella Lettera apostolica “Cantor luci aeternae” del 25 marzo 2021, lo ha definito profeta di speranza e poeta della misericordia. Il papa, parlando di cinema, del Neorealismo in particolare (nel volume “Lo sguardo: porta del cuore”), dice che “oggi abbiamo necessità d’imparare a guardare”; proprio quando è difficile la situazione, com’è quella che stiamo vivendo, “servono occhi capaci di fendere il buio della notte, di alzare lo sguardo oltre il muro per scrutare l’orizzonte: uno sguardo che tocca la realtà, ma anche il cuore è uno sguardo che la realtà la trasforma… è uno sguardo che ti porta su, che ti solleva…”. Sono parole che Dante avrebbe ascoltato con commozione, riconoscendo in esse un’estensione della sua sensibilità, della sua tensione cristiana. La soluzione del guardare bene, del guardare davvero, per trovare, o ritrovare la luce, la possibilità dell’altezza -anche verso il cielo- che comincia però dal rialzarsi da terra, è quanto egli attua nella poesia del Paradiso, nell’insistere sul ruolo di forza trainante che, per lui, ha una donna, Beatrice, e che per chiunque possono avere gli occhi amati.
Dante vive il senso della caducità, che vale per la vita delle persone e per le umane sorti in genere. Forse in lui tale sensibilità risulta acuita, per aver perso la madre da fanciulletto, certo prima dei dieci anni di età. Una tale provvisorietà dei sentimenti, degli affetti umani, per lui si rivela ancora vera e tragica nella recisione della giovane esistenza di Beatrice, e conferma, motiva di ulteriore senso, la sua inclinazione a spiritualizzare l’amore, a eternarlo nella dimensione della salvezza dell’anima. Lodare Beatrice, come nessuna donna lo è stata prima; farlo attraverso la poesia, capace di valicare il tempo presente e assicurare una forma di sopravvivenza, rappresenta pure il coronamento di tale stato d’animo. Collegare la sua figura a Maria, e corredarla dei tanti riferimenti sparsi nel poema, e specie nel Paradiso, all’importanza della funzione materna (certo in relazione alla Natività, ma non solo), alla presenza dei “fantolini”, che ridono, piangono, poppano, tentano di parlare, crea anche in cielo uno spazio intimamente umano, fatto di amore materno e del naturale rispetto per i piccoli. Che si traduce nel solo accudimento, pur amorevole, per “l’augello…/ posato al nido de’ suoi dolci nati” (XXIII, vv. 1-2), e in molto di più per gli esseri umani: l’insegnar loro a parlare, la loro educazione, l’averli battezzati. Se no, per chi di loro muoia, “tale innocenza là giù si ritenne” (XXXII, v. 84): laggiù è il margine infernale, il Limbo.
Nella Commedia abbiamo il resoconto, “formalizzato” in modo inscalfibile, di un esploratore della sensibilità umana che non si arresta dinanzi a nulla. Ed ecco che il poema coinvolge pure il nostro tempo e si proietta oltre. E dal suo autore abbiamo ricevuto un determinante apporto, sia nel lasciarci una cultura che consta di lingua e strumenti espressivi dal grande avvenire, sia un patrimonio di sentimenti -specie circa la vita e la morte, l’amore e la “perdita”- non certo nuovi, nella storia e nella letteratura precedenti, ma nuovamente codificati; in quanto il tutto è innalzato nei destini eterni delle anime, e immesso nel flusso della storia orientato dall’Incarnazione e dalla Verità rivelata.
Dante evidenzia di partecipare con sofferenza e amarezza al come vanno le cose del mondo, ma afferma la speranza nel riscatto, che si fonda sulla certezza di poter sempre operare per il bene. Avendo fiducia nel giudizio divino, nella sua giustizia: imperscrutabile, inevitabile e, per i meritevoli, risanatrice, e con la più alta ricompensa. È fondamentale, sostiene il papa, avere “uno sguardo che nelle tenebre custodisce il gusto e il senso della luce”. Ed è “proprio della grande arte saper cogliere nell’inverno ciò che era già primavera” (papa Francesco, in “Lo sguardo: porta del cuore”). Questa forza data dalla sicurezza, grazie a convinzioni profonde, emerge nel piglio con cui il poeta entra in campo sulle varie questioni, prendendole di petto, senza tentennamenti. Insomma, anche la sua forza è un tesoro immateriale che Dante ci ha donato.
Come è vero che non c’è pace senza giustizia, lo è altrettanto che non ci può essere giustizia se il denaro impera. Specie al palesarsi di ingiustizie che coinvolgano il bene comune e la salvezza delle singole persone (pertanto pericolose per chi le divulghi, le affronti), la via da seguire, ardua ma nobile e gloriosa, è quella confermata a Dante dall’avo Cacciaguida: fare “come vento, / che le più alte cime più percuote;/ e ciò non fa d’onor poco argomento” (XVII, vv. 133-135). E così non c’è timore “di perder viver tra coloro/ che questo tempo chiameranno antico” (XVII, vv. 119-120).
Oggi, leggere la Divina Commedia può contribuire a far apprezzare la solidità della vera cultura, gli impegni seri e duraturi, le scelte ideali e non solo di convenienza; e a mettere vigore nelle nobili azioni e vocazioni. È importante ogni aiuto per mantenere la retta via e non smarrirsi; per unirsi con Dante in un viaggio di purificazione e rinascita, un pellegrinaggio nell’oltremondo: “ l’altro viaggio”.
E lo è a maggior ragione l’intervento educativo (essendo didattico-allegorico il “genere” della Commedia) di un poeta del passato; il quale, presente come un padre, pensi a dare alla nostra fragilità strumenti ideali e culturali per una vita degna, validi per tutti e utili specie alle giovani generazioni.
Nino Giordano e Fabrizio Maestrini