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Dante e il pensiero dell’Europa basato sulla cultura della persona – di Umberto Baldocchi

Le drammatiche vicende che, dal febbraio 2022 (ma potremmo dire anche dalla pandemia del 2020), connotano la vita pubblica europea testimoniano un’impotenza culturale e un disorientamento morale che si fa fatica persino ad ammettere. Sarebbe come riconoscere che stiamo brancolando nel buio alla ricerca di una luce che non s’intravede neppure da lontano. Siamo di fronte a una ennesima eclissi dell’ Europa come quella tragica che ha segnato la prima parte del XX secolo? Dobbiamo allora rassegnarci ed accettare come inevitabile la logica apocalittica dello “scontro di civiltà” preconizzato da Samuel Huntington e prepararci a difendere, anche con le armi, la parte che è nel “giusto”?  Non ci sono davvero più altre strade?

E’ forse, più semplicemente, l’ora di ammettere che, entro un’oscena separazione tra politica e cultura, abbiamo smarrito, insieme alla cultura del tempo, della pausa e della riflessione, anche l’ arte del “pensare europeo”, certo, non quella di “pensare (in astratto) l’ Europa” come una unione di Stati e magari anche di popoli.  Da quando il passato non proietta più le sue luci sul futuro, la mente dell’uomo è costretta a vagare nelle tenebre, come osservava Tocqueville.

Se questo è il problema, bisogna  allora tornare indietro, alle radici, ai padri veri del “pensare europeo”, a quelli che hanno reso possibile ai promotori della Comunità Europea, a Monnet, a Spinelli, ad Adenauer, a De Gasperi ed agli altri di mettere mano alla costruzione europea dopo le tragedie della prima metà del XX secolo. E se davvero cerchiamo di andare alle remote  origini, io credo che non ci si possa fermare al XX o al XIX secolo. Credo che bisogni invece riandare alla lentissima formazione medioevale dell’ Europa e credo anche che le prime tracce compiute di un “pensiero comune europeo” si possano trovare in Dante Alighieri che è riduttivo considerare solo il padre della lingua italiana.

Del resto,  “Dante scopre l’ Europa- La geografia europea nella Divina Commedia” è il titolo di un lavoro presentato di recente, il 25 febbraio 2023, nella Sala della Regina a Montecitorio e, non per caso, quel volume si apriva con una presentazione di Davide Sassoli, figura di collegamento anche personale tra Europa, Italia e Toscana. E l’attenzione ad un “Dante europeo” pare essere in sviluppo negli ultimi anni.

Dante certo è una figura imbarazzante, per il peso eccezionale ed extra ordinem della sua opera. Si è parlato di un Dante come “padre della Destra”, ma al di là della discussione da talk show di tarda serata su questa affermazione, con qualche buon argomento si è sostenuta  invece l’idea di un Dante “politico medioevale e reazionario”, incapace di comprendere ed accettare il progresso storico. Si è infatti affermato che Dante nel celebre canto di Cacciaguida sarebbe passato da una posizione popolare alla idealizzazione del codice dei valori dell’aristocrazia feudale, divenendo persino una sorta di “propagandista imperiale”.

Il pregiudizio di un Dante reazionario e dogmatico, che si oppone alle vive forze della storia, è però classificabile come una opinione “prigioniera dei pregiudizi del nostro tempo che ha sviluppato unilateralmente le idee di evoluzione e di immanenza, e che si sforza di escludere totalmente dal pensiero politico e storico gli elementi statici e trascendenti. ..( Per Dante)  “storia” e “sviluppo” non  sarebbero valori di per sé validi, egli cercava il segno che presiedeva e dava un senso all’accadere del momento, trovava solo caos,aspirazioni illegittime dei singoli, e di conseguenza confusioni e sciagure”( Erich Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 2005 , ediz.orig. Berlin Leipzig 1929, p. 60).

Del resto, in quel contesto specifico “ più che a una classe specifica, Cacciaguida si oppone a un fenomeno politico legale, l’assimilazione cioè della cittadinanza a un contratto, un titolo che può essere acquistato e venduto….I problemi erano insorti quando le logiche di mercato  avevano distorto il processo di acquisizione della cittadinanza, portando a reati  di peculato e corruzione negli uffici comunali” (Justin Steinberg, Dante e i confini del diritto, Roma, Viella, 2016, p.146).

Ma Dante ha davvero ”pensato l’ Europa” ed ha inaugurato il “pensare europeo”? Personalmente credo di sì e che sia oggi di grande attualità ribadirne le ragioni e i fondamenti.

Va certo premesso che, benché Dante non  abbia impiegato in senso politico il termine Europa, ma si riferisse al contesto della respublica christiana , in lui troviamo un primo progetto di una costruzione politica europea, il De Monarchia.  A partire dal XIII secolo, con l’ ascesa degli Stati europei e l’indebolimento dei poteri centrali ( Impero e Papato), si delineava il bisogno di un nuovo potere funzionale, in linea di principio, a garantire la pace. L’esigenza di un governo comune che assicurasse una pacifica convivenza è testimoniata da un’opera contemporanea a quella di Dante, un’opera scritta da un monaco benedettino della Stiria. Nel 1310 questo monaco, dal nome di Enghelberto di Admont ( 1297-1327),  elabora un testo intitolato De ortu et fine Romani Imperii,  per sostenere la necessità di un solo governo politico del continente nel momento in cui il Sacro Romano Impero entra in una fase di aperta decomposizione. Il progetto politico dantesco è dunque in sintonia con esigenze non italiane ed è il primo ( o uno tra i primi) di una lunghissima serie di progetti  mai realizzati, ma che sono stati lanciati nel corso del tempo.

Ma non è questo il punto centrale per caratterizzare la dimensione europea profonda di Dante. La vera novità “europea” è nella costruzione intellettuale e morale che Dante realizza con il complesso della sua attività in prosa e soprattutto con la sua principale opera poetica, la Commedia. Dante, nella Commedia, è certo un poeta, ma non nel senso comune della parola,  piuttosto nel senso di costruttore di un mondo, di creatore di un mondo. “ L’opera di Dante, come le cattedrali del Medioevo e le somme dei filosofi scolastici, si prefigge il gigantesco compito di costruire quel mondo strutturato in cui la ricchezza dell’esistenza perviene all’unità. Essa vuole trovare un ordine in cui ogni cosa abbia il proprio posto, vuole fondare un dominio santo in cui ogni essere riposi sul significato, ogni forza  sul diritto e ogni obbedienza conduca alla libertà.” (Romano Guardini, Studi su Dante, Morcelliana, Brescia, 1979, p. 116, ediz.orig. Munchen,1951).

La costruzione di una cultura della persona

La novità straordinaria introdotta da Dante è stata ben qualificata da Erich Auerbach con la definizione di Dante come “ poeta del mondo terreno”. La poesia dell’antichità classica non aveva mai preso a suo oggetto la realtà fenomenica, gli avvenimenti storici reali ( e “terreni”), ma rappresentazioni mentali e idee aprioristiche che poi davano vita a figure che nulla avevano a che fare con la concreta esperienza dell’autore e con la vita reale. Il poeta classico intendeva rappresentare l’universale, non ciò che era singolare o personale, che in quanto tale era in sé irrilevante e impoetico. Quindi, i suoi contenuti erano ovviamente i miti o le vicende mitizzate degli eroi, col loro valore simbolico ed astrattamente razionale, oppure i sentimenti straordinari che l’uomo sperimenta in via eccezionale. Perché era così? Perché mancava all’antichità classica il concetto di persona prodotto dal pensiero ebraico e cristiano ed elaborato poi dalla teologia cristiana dei primi secoli, anche attraverso la ridefinizione del concetto di divinità.

La persona, nel pensiero cristiano, è un unico irripetibile, creato ad immagine di Dio, dotata di coscienza e di libertà morale, che vive in comunione con gli altri. E’ l’opposto dell’ individuo, dell’ “atomos” greco, concepito come entità tanto autosufficiente quanto indivisibile, essendo invece dotata di una duplice apertura verso il “Totalmente Altro” e verso il prossimo. Questa apertura è generatrice di dinamismo, originalità e complessità e quindi anche  di dramma. Agostino nelle sue “Confessioni” ci fa vedere come gli eventi personali, persino quelli a prima vista più irrilevanti, come un furto giovanile di pere, siano in realtà espressione di una complessità psicologica degna di un vero dramma, parte di una “magna quaestio”, di una impegnativa ricerca che merita sempre fare.

La  vita reale dei singoli diviene lentamente, a partire dalla rivoluzione del cristianesimo, espressione di un dramma dotato di senso in cui carattere e destino non sono più elementi distinti e in conflitto tra di loro. L’attenzione alla realtà terrena, la dignità riconosciuta a tutta la realtà terrena è la conseguenza della  scoperta della civiltà della persona umana. La vita di ogni uomo anche del più semplice è un dramma, la storia umana è, perciò anch’essa, una vicenda drammatica, tesa fra un inizio spesso promettente ed un compimento che può fallire e può fallire per sempre. Il dramma umano dello sconosciuto Romeo di Villanova nel Canto VI del Paradiso è esattamente un dramma persino più affascinante di quello del grande Giustiniano che dedica la sua opera a perfezionare la legge, togliendo il “troppo e il vano”.

Il “cammin di nostra vita” – dove il “nostra” indica il riferimento alla comune esperienza di ogni persona- è per tutti un percorso drammatico, conflittuale, in misura maggiore o minore  e sempre dotato di senso . “ Non sta compiendo l’uomo un duro servizio sulla terra? E i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario?” ( Giobbe, 7, 1)    Per questo, Dante fa agire nella sua Commedia personaggi reali, colti e rappresentati in frasi e azioni che ne rivelano l’essenza profonda, il senso vero messo in luce, una volta per tutte, ed in via definitiva, della loro esistenza. E per questo quei personaggi imbevuti del più profondo dei realismi ci affascinano ancora e ci sembrano tanto attuali. Per nessuno di loro la vita è una storia assurda o priva di senso, una favola piena di rumore e clamore che non significa niente.

E’ questa l’ idea della persona, entità irripetibile ed unica, e dotata perciò di un valore infinito, che plasma il “pensiero europeo”, allontanandolo anni luce dal pensiero dell’antichità, che dà vita alle letterature europee, all’arte, alla riflessione culturale e politica europea. La nozione di persona e di uomo in quanto tale non era mai stata iscritta nel diritto classico che trattava di cittadini, di guerrieri e di schiavi, ossia  di esseri umani dotati di diritto e di altri sprovvisti di diritti.  Prendeva lentamente forma un mutamento epocale iniziato da più di un millennio per cui stava entrando nelle coscienze dei popoli europei una nuova rappresentazione dell’accadere, quella portata dal cristianesimo.

E come scrive Auerbach, “la storia di Cristo è più che la  parusia ( la presenza realizzata)  del Logos , più che l’apparizione del’ Idea. Essa è anche la sottomissione dell’ Idea alla problematicità e disperata ingiustizia della vita terrena. Considerata a sé, e dunque senza il trionfo postumo e mai completamente attuato nel mondo, semplicemente come storia di Cristo sulla terra, essa è così disperatamente terribile che la certezza di una sua riparazione effettiva e concreta nell’ aldilà, rimane l’unica via d’uscita… ” ( E. Auerbach, Studi su Dante, pp. 14 e 15).

Ed anche la complessiva vicenda europea  si può leggere come un grande dramma collettivo. una grande e mai conclusa conflittualità tra esigenze del potere ed esigenze della giustizia, proprio come la vicenda della singola persona che è certo chiamata alla libertà ( morale),  ma si deve muovere sotto la tentazione costante di lacerare quell’ordine morale entro cui può realizzarsi il suo destino.

Ogni astrazione da questa concretezza della persona, dalla sua natura relazionale e delle sue finalità umane, è  stata sempre una radicale negazione del pensiero europeo. Come è avvenuto coi totalitarismi del XX secolo, o ancor prima con l’utilizzazione della religione come instrumentum regni al tempo delle guerre  di religione.  Oggi certo non trova più spazio,  o ne trova sempre meno, l’astrazione razzista o classista, quella per cui la persona vale in relazione al sangue, alla cultura, alla classe di appartenenza.  Ma vi sono altre astrazioni ben più insidiose, diffuse dalla (pseudo) cultura politica, come le astrazioni di mercato per cui la persona si identifica col  consumatore, se non con la pura forza-lavoro, o con il puro “occupabile” ( modalità orwelliana per non dire disoccupato),  o anche l’astrazione antropologica, a suo modo “progressista”, che mette al centro l’individuo competitivo, l’ homo oeconomicus  l’imprenditore di se stesso, o addirittura la nuova entità post-umana, o trans-umana che piace al pensiero cd. “radicale” che si fonda su un inedito potenziamento tecnologico, intelligenze artificiali e via dicendo.  Potrà ancora sopravvivere il contenuto effettivo del concetto di persona  a queste innovazioni ? O si userà invece il concetto di persona attribuendole però significati diversi? E’ questo il pericolo di un radicale   rovesciamento del pensare europeo.

Una persona non è un atomo, né un elettrone libero che basta a se stesso, è piuttosto un essere legato al vivere in comunità, che non può neppure vivere separato da essa. Solo questa persona concreta, la persona, dotata di coscienza e libertà, capace di comunione e  di relazione , inserita nella comunità,  “signora” della propria mente, è la pietra viva  su cui può essere costruita l’Europa. Il passato ce lo dimostra. Solo questa persona poteva realizzare quell’arte del “vivere insieme” tra persone diverse che è stata la cifra della grande fioritura medioevale: le “città europee” da cui è nata davvero l’Europa coi suoi slanci creativi migliori. L’astrazione antropologica potrà invece produrre anche qualcosa di omogeneo e funzionante, magari sul modello del neo-confucianesimo  cinese contemporaneo.  Ma non certo qualcosa di europeo.

Dal concetto di persona e dalla scoperta dell’ “arte del vivere insieme”  è nato poi forse l’acquisizione più alta del progresso europeo, vale a dire la teoria dei diritti umani, la cui scoperta noi datiamo al XX secolo e le cui fondamenta, semplicisticamente, facciamo risalire all’ Illuminismo. In realtà la filosofia dei diritti umani – diritto all’eguaglianza, alla sicurezza, alla libertà di coscienza, alla libertà di proprietà ecc.-  trae origine dal riconoscimento del valore infinito della persona umana  e della eguale  dignità  delle persone create “a immagine” di Dio, vale a dire dotate di un potere che, come ogni potere delegato, richiede sempre responsabilità, un “potere” che per esser tale, paradossalmente, non può mai essere “dominio” arbitrario, ma deve esser sempre “servizio” e “obbedienza” a una norma.  Sono stati, nei secoli successivi al secolo dantesco , in particolare nel XV, XVI e XVII secolo i  teologi, i giuristi e i filosofi cristiani a trasporre le prescrizioni etico-religiose entro il diritto aprendo la strada agli sviluppi dell’ Illuminismo. Potremmo dire che i diritti umani sono il fondamento, finalmente aperto e dichiarato, di quel “vivere insieme” in modo umano che la fioritura medioevale aveva prodotto.  Oggi abbiamo, in teoria almeno, universalizzato  il diritto alla dignità personale – passo forse inevitabile dopo la Shoah- un diritto che è entrato nel senso comune. Ma c’è qualcosa che non va. Nonostante questo, non c’è l’ indignazione che ci vorrebbe  contro chi in Europa  innalza nuove frontiere interne e respinge i disperati del mare e che, quasi in oscena coerenza con questo degrado, sembra di nuovo considerare la guerra un mezzo come altri per risolvere le controversie internazionali.(Segue)

Umberto Baldocchi

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