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Benedetto da Norcia, il costruttore dell’ Europa.
Non c’è ovviamente nella Commedia alcun canto dedicato l’ Europa. C’è un canto però in cui si intrecciano stupendamente tutti i punti essenziali di questo “pensare comune europeo” di cui si è sin qui detto. E non poteva essere che il canto XXII del Paradiso, quello in cui compare Benedetto da Norcia, il santo proclamato nel 1964 da Paolo VI il primo tra i protettori dell’ Europa. Benedetto era intervenuto, con la sua azione di fondazione della prima grande rete di monasteri europei, in un contesto disastroso, devastato dal crollo definitivo del sistema di diritto romano e dalla guerra greco-gotica a metà del VI secolo, che aveva comportato, specie in Italia, un pauroso stato di regressione civile, economica e morale difficilmente immaginabile. Dilagava allora una crisi disastrosa della socialità , della cultura, dell’economia e della politica.
Il ruolo storico del concetto di persona umana in questa ricostruzione morale e civile è evidente nelle metafore e nelle immagini presenti nel canto. Il sogno della scala di Giacobbe ed i movimenti alto-basso e viceversa disegnano efficacemente le modalità di azione della persona.
Il sogno di Giacobbe è il trait d’’union del canto. Il sogno può esser letto come una efficace descrizione di una “religione incarnata” come il cristianesimo- riscoperto come tale nel culto mariano nato attorno alle grandi cattedrali europee o nella rievocazione francescana del presepe- . Come è noto Giacobbe ( Genesi 28, 10/22) nel racconto biblico vide in sogno una scala che dalla terra arrivava al cielo e sulla quale salivano e scendevano gli angeli, per cui poi Giacobbe avrebbe esclamato: Veramente c’è il Signore in questo luogo e io non lo sapevo! La scala è espressione di un invito all’apertura della persona, alla dimensione verticale, all’ascesa verso l’alto alla ricerca del divino. ma al tempo stesso è la testimonianza di una vicinanza non immaginata della divinità all’azione dell’uomo.
“ Infin lassù la vide il patriarca
Iacob porgere la superna parte
Quando li apparve d’angeli sì carca.
Ma per salirla, mo, nessun diparte
Da terra i piedi,e la regola mia
Rimasa è per danno delle carte” ( Paradiso XXII, 70-75)
E’ la nuova forma dell’ascetismo che è una elevazione della persona capace di realizzare una virtus moderna, non più pagana, una virtus legata al servizio degli altri ed al bene della comunità, non più al potere ed al dominio sugli altri. Una virtus post-pagana, che è frutto di una “ascesi” originale che non isola dal mondo, ma riconduce verso il mondo, dall’alto verso il basso, anche se è inconcepibile senza la visione dell’ordine trascendente, evidenziato dalla scala senza fine. Il progresso vero non è qui il potenziamento del post-umano, oggi presentato come la cifra dell’ “antropocene”. Esso è invece una ascesa o elevazione della persona, e configura la costruzione di un carattere segnato da energia, determinazione, coraggio e responsabilità, legata stabilmente alla comunità di appartenenza, potremmo quasi dire un modello anche per la società attuale secondo Alistair Mc Ilwain ( After virtue a study in moral theory , Indiana U.P., 1981) dopo i fallimenti di liberalismo e marxismo. Un progresso che realizza una vitalità che ha bisogno di mente e di cuore, cioè di coraggio, di capacità di non turbarsi, di resistere,di sfuggire agli inganni e alle idolatrie di ogni tipo.
“Qui son li frati miei che dentro ai chiostri
Fermar li piedi e tennero il cor saldo” ( Paradiso XXII, 50-51)
L’opera della persona così rinnovata è una sorta di “santificazione” di tutta la realtà, dove anche il lavoro ritrova una sua dignità, sconosciuta al mondo antico. Una dignità che deriva dal non essere pura erogazione di forza o attività funzionale, ma perché, visto come dialogo, come cura del creato e dell’altra persona, iscritto entro una relazione umana che vuol realizzare quell’ ’ ordo amoris che glorificazione di Dio, umanizzazione dell’uomo e custodia della natura.
Questa potentissima visione unitaria ed unificante, animata dalla caritas, produce la molteplicità positiva “…quel caldo/ che fa nascere i fiori e i frutti santi” ( Paradiso XXII; 47-48), la molteplicità dei sentimenti e delle opere cui è conferito bene e bellezza dall’opera umana. Si umanizza il tempo, che non è il tempo omogeneo o circolare degli antichi, ma il tempo come occasione in cui si ordina l’azione umana, si realizza la cura degli altri, la bonifica del paesaggio, la coltivazione ordinata della terra.
Siamo nell’ambito di quella che oggi chiamiamo “politica della cura” , da tutti oggi citata e da nessuno praticata, la politica che usa come benchmark finale non i parametri astratti e numerici, ma i beni concreti realizzati , in particolare i beni attinenti la la persona ed il territorio. Potremmo forse ricordare che nelle parole di un pontefice del XX secolo tra le forme più alte della caritas si annoverava la politica, evidentemente “questa” politica.
Nel canto, come in ogni canto del Paradiso, vi è ovviamente un continuo implicito riferimento alla pace, che è la cifra dei comportamenti delle anime, tutte mosse dalla carità che genera la concordia delle menti e dei cuori che, in una trasparenza assoluta, vedono e condividono i pensieri degli altri. “….se tu vedessi/ com’io la carità che tra noi arde/li tuoi concetti sarebbero espressi” ( Paradiso XXII; 31.33).
Non ci sono riferimenti diretti alla pax universalis che dovrebbe regnare nella politica. Tuttavia c’è una serie di indizi che ci fanno capire perfettamente la riflessione dantesca.
La cultura della pace come la cultura del cristianesimo è una cultura che prevede un duplice movimento, di discesa ed elevazione, di rivelazione/illuminazione e di sforzo personale di miglioramento in direzione di ciò che è “sublime”, prevede il “trasumanar” del Paradiso dantesco, che è cosa molto diversa dal post-umano e dal super-umano moderni.
E quel son io che su vi portai prima
Lo nome di colui che in terra addusse
La verità che tanto ci sublima ( ParadisoXXII, 40-42)
La verità evangelica viene portata in basso , sulla terra, per portare in alto le persone. E la pace in senso politico, ovvero la cultura della pace dantesca, non è una ideologia, una strategia politica, una scelta di testimonianza, un tentativo disperato degli uomini immersi nel caos. E’ invece una possibilità concreta, che difficilmente può essere costruita, ma può esserlo. Tutto dipende dalla capacità della cultura di spingersi in alto e di riuscire a osservare da una prospettiva straniante e straniata ( quella dell’eternità dantesca ) i piccoli fatti e le piccole storie degli uomini fatte di rumore e clamore, ma in se stesse piccole e irrilevanti, e significanti solo in riferimento ad altro.
La cultura della pace significa oggi saper guardare l’Europa dall’alto, da una prospettiva diversa esattamente come fa Dante, e quindi saper riconoscere perché l’Europa di oggi, più o meno come l’ Europa che Dante vede dall’alto, si presenta nel canto citato come “l’aiuola che ci fa tanto feroci” ( Paradiso XXII; v, 151). Ma solo se partiamo da questa cultura più elevata, quella della persona umana, e abbiamo la forza di sorridere “del vil sembiante” (Paradiso XXII 135) che ha assunto il nostro mondo, possiamo discernere i problemi epocali che dovremmo affrontare per costruire le basi di una nuova cultura della pace e della politica. Per far uscire l’ Europa dall’eclissi in cui di nuovo si trova. Abbiamo però bisogno di una cultura che ci porti verso l’alto, verso il sublime.
Umberto Baldocchi