Alcide De Gasperi, nato nel Trentino austro-ungarico ed anche eletto al Parlamento di Vienna, è lo statista per eccellenza del secondo Novecento italiano. Più che la cultura cristiano-sociale della mitteleuropa influì su di lui la novità della prima democrazia cristiana di Toniolo e Murri. Italianissimo, dunque. Per questo l’epiteto di “austriacante”, affibbiatogli per la prima volta dalle camice nere, lo patì come un insulto intollerabile.

Deputato nel 1921, fece esperienza a Roma di una “italianità” meno entusiasmante di quella del mito irredentista. Un giorno intervenne in Aula – era capogruppo del Ppi – per denunciare che la gestione delle poste nelle terre annesse alla madrepatria risultava più costosa e meno efficiente di quella asburgica. Meglio pertanto rispettare e responsabilizzare le autonomie territoriali: un pensiero che vale tutt’ora a fronte di rinnovati centralismi e differenziazioni regionali evocative di maggiore spesa pubblica.

Vide il declino dell’Italia liberale, l’impeto del biennio rosso (1919-1920), la fragilità delle istituzioni. L’avvento di Mussolini sparigliò le carte e mise in difficoltà i Popolari. Sturzo in quella circostanza fu il più intransigente e dopo l’assassinio di Matteotti, De Gasperi fu protagonista dell’Aventino. La protesta delle opposizioni non andò a buon fine, il Re coprì il governo e Mussolini inasprì la repressione. E così nel 1927, con l’accusa di espatrio clandestino, De Gasperi fu arrestato e condannato.

Si può immaginare lo stato di prostrazione di un uomo che, uscito dal carcere, era senza un lavoro. Fu mons. Endrici, vescovo di Trento, a premere sulla Santa Sede e a procurargli un impiego, pur  modesto, alla Biblioteca vaticana. Anni di emarginazione e solitudine, ma anche di studio e preparazione: quando il Regime cominciò a traballare per le sconfitte militari e la crescente insofferenza degli italiani, De Gasperi aveva chiaro il quadro delle azioni da intraprendere. Era sicuro che i cattolici, dopo la guerra, sarebbero stati chiamati a compiti di grande responsabilità.

Non arrivò al potere per caso e quando ci arrivò, sulle macerie lasciate dal fascismo, fu saldo nella condotta politica che impegnava la “sua” Dc, al pari delle altre forze popolari e liberali, sul terreno della rinascita democratica. 

Il miracolo italiano, esaltato a ridosso degli anni ‘60, ha le sue radici nella straordinaria “rifondazione” della politica e dell’economia avviata nel biennio ‘46-‘48 e proseguita, dopo la rottura con i social-comunisti, nella feconda stagione del centrismo. Le grandi riforme – liberalizzazione dei commerci, riforma tributaria, Cassa del Mezzogiorno, riforma agraria, istituzione dell’ENI, piano INA-casa – le fece De Gasperi, tanto che lo storico Piero Craveri poté concludere la sua biografia dello statista trentino scrivendo che l’Italia di oggi è quella disegnata in età degasperiana.

Bisogna aggiungere che la più “attuale” passione di De Gasperi fu 

l’Europa, l’impegno per la costruzione di una autentica comunità politica, nella cornice della solidarietà atlantica (NATO). 

Viviamo un tempo che esige la formazione di nuove Idee ricostruttive sul calco di quelle di De Gasperi. Abbiamo assistito ad una sorta di cedimento strutturale del Paese. Dobbiamo dunque operare una seconda Ricostruzione, ma non la si può fare senza un pensiero politico adeguato e senza un vero impegno collettivo.

Franco Franzoni

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