­Benito Mussolini odiava profondamente Alcide De Gasperi. Una volta liberatosi di don Luigi Sturzo, di Giuseppe Donati e di Francesco Luigi Ferrari, successivamente costretti all’esilio sin dai primi momenti della sua presa di possesso del potere, rivolse ogni cura nel perseguitare il politico trentino. E non lo fece  solamente nel breve periodo in cui il Partito popolare sopravvisse, e De Gasperi dovette assumere il pesante fardello di esserne il Segretario nazionale e il Capogruppo in una Camera prossima alla sua chiusura. La persecuzione continuò anche dopo. Quando, dopo essere stato incarcerato e, poi, costretto ad un’autentica vita di fame, venne finalmente assunto come semplice assistente bibliotecario in Vaticano. E il Duce giunse persino a scrivere a Papa XI per chiedergli un “atto di cortesia della Santa Sede” consistente nel suo licenziamento. Come ricorda don Roberto Angeli nel suo “Pionieri del movimento democratico cristiano (ed Cinque Lune, 1959), la risposta del Pontefice fu secca: “Ci offende chiamare atti di cortesia quelli che sarebbero da parte nostra atti di vigliaccheria”.

La cosa più speciosa della persecuzione di De Gasperi da parte dei fascisti fu che essa veniva pretestuosamente giustificata per essere l’esponente popolare considerato un “austriacante”.

La ricchezza del politico trentino consente di esaminarne figura, pensiero ed azione sotto tanti punti di vista, tanto poliedrico fu l’uomo e lo statista.

Ieri,  su queste pagine, Domenico Galbiati ha rimarcato la capacità degasperiana di dare concretezza ed efficacia al concetto di “coalizione” (CLICCA QUI). Certamente frutto anche della grande esperienza che De Gasperi aveva maturato nella realtà multietnica, e multinazionale, dell’Austria in cui era nato da italiano e nel Parlamento di Vienna, in cui si distinse come uno dei più fieri alfieri dell’italianità del Trentino e delle altre aree imperiali di vocazione preminentemente italiana.

Fu proprio con quella esperienza che De Gasperi si cimentò ed arricchì la propria consapevolezza di quanto fosse necessaria la relazione con la “comunità”. Anzi, con le comunità. E questo, a dispetto della ingiustificata denigrazione fascista, lo fece essere “italiano” in Austria, prima, e, poi, in forma ancora più compiuta, nella Patria riguadagnata.

Il senso dell’italianità di De Gasperi è richiamata oggi in una stagione in cui tornano gli astorici ed irrealistici impulsi nazionalisti che rischiano di metterci ai margini di quel grande processo in cui De Gasperi credeva per la salvaguardia della Pace in Europa ed anche per il delinearsi di un mondo diverso in cui erano destinati ad una evoluzione del tutto inedita i processi economici, produttivi e del commercio internazionale.

Pertanto, Alcide De Gasperi fu italiano, ma senza dimenticare che il mondo, nella ricerca della Pace e dello sviluppo, ha bisogno del dilatarsi delle nazionalità in “comunità” sempre più ampie. Un processo lungo ed accidentato, ma necessario. All’interno del quale le specificità di ciascuno non debbono essere viste come un’ancora di salvezza da gettare in un momento di difficoltà, e, demagogicamente, per sottrarsi ad una visione ampia ed aperta del mondo, oltre che alle responsabilità assunte nel corso dei decenni. Bensì come un’occasione di una evoluzione reciprocamente e per tutti necessaria, per quanto la complessità renda il tutto impegnativo.

In sostanza, senza rinunciare al suo essere italiano, come scrisse di lui Vittorio Bachelet nel 1957, De Gasperi aveva piena conoscenza e consapevolezza del senso della ” comunità nazionale, delle comunità europea e della comunità mondiale”.

Giancarlo Infante

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