Nel confuso quanto poco costruttivo dibattito per nuove disposizioni di legge per il sistema carcerario italiano spesso si dimentica il contenuto della normativa vigente sin dal 2000.
Con DPR 30 giugno 2000 n. 230, venne emanato il nuovo regolamento recante norme sull’Ordinamento Penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà.
Dopo l’introduzione dell’importante strumento, venne affermato (1)che tale intervento, abrogando interamente il precedente regolamento del 1976, si proponeva di dare concreta e piena attuazione ai principi ispiratori, riconosciuti ancora oggi validi, della Riforma Penitenziaria, ormai non più recente, introdotta con la l. 26 luglio 1975 n. 354, che cercava di trovare un giusto equilibrio tra la pena vista come risposta alle esigenze di sicurezza sociale e pertanto retribuzione per il danno cagionato dal reato e pena quale strumento teso alla rieducazione del condannato finalità quest’ultima espressamente riconosciuta dalla Carta Costituzionale che prevede la reintegrazione del soggetto deviante nel tessuto sociale.
La relazione di accompagnamento del Regolamento definisce, infatti, tale intervento
(…) quale strumento per affermare negli istituti penitenziari la reale applicazione dell’Ordinamento Penitenziario, allo stato ancora largamente inapplicato.
Accanto alla obiettiva esigenza di dare efficace attuazione alla riforma del 1975 si era reso necessario aggiornare il regolamento esecutivo alle molteplici riforme, succedutesi nel tempo a ritmo piuttosto serrato, a causa della introduzione del nuovo Codice di procedura penale, in tema di deferimento dell’esecuzione della pena per motivi di salute del condannato, in materia di misure di sicurezza ed a seguito della riforma organizzativa dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia in generale (1-bis).
Notevole impulso ad una completa rivisitazione delle tematiche della esecuzione della pena, in ambito carcerario e non, è poi stato fornito da numerosi documenti internazionali e comunitari, tra cui va annoverata, tra gli ultimi, la risoluzione adottata dal Parlamento europeo (1998) sulle condizioni della detenzione carceraria nell’Unione Europea.
Il nuovo Regolamento, nella volontà di superare l’isolamento dell’istituzione carceraria e riconoscendo che solo l’esistenza di stabili legami con il tessuto sociale esterno può costituire garanzia per il positivo percorso di reintegrazione del detenuto, incentivava l’operatività dei centri sociali e di volontariato che divengono i protagonisti e i garanti della buona riuscita dei programmi riabilitativi del condannato.
Rimangono immutati i principi enucleati nei primi articoli del regolamento circa la necessità che il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà
consista nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali (art. 1/1)mentre quello dei condannati e degli internati sia, invece, diretto a
promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale (art. 1/2).
In tal modo venne posta in evidenza la finalità rieducativa della pena, diretta alla reintegrazione sociale del soggetto che si trovi ad avere contatto con la realtà carceraria.
Venne, inoltre, riformulata nel regolamento la disciplina sull’osservazione della personalità del soggetto ai fini dell’accertamento dei bisogni connessi alle eventuali carenze psico-fisiche, affettive, educative, sociali, che abbiano costituito ostacolo per l’instaurazione di una normale vita di relazione (2).
In conseguenza, ogni soggetto poteva essere sottoposto ad un programma individualizzato di trattamento proprio al fine di garantirne il “recupero” anche con particolare riguardo agli infermi di mente(!!)(art. 20).
Il nuovo regolamento poneva, inoltre, un accento particolare alla fase in cui il soggetto fa-ceva ingresso nell’istituto ed alla formulazione del programma individuale di trattamento.
Considerata che questa fase risulta particolarmente critica e difficile per ogni individuo, l’art. 23 prevedeva l’immediato colloquio con un esperto diretto a verificare se il soggetto che fa ingresso nell’istituto carcerario, fosse in grado di “affrontare adeguata mente lo stato di restrizione”.
Si trattava di normare una prassi, quella del “servizio nuovi giunti”, che si era instaurato negli Istituti penitenziari di maggiori dimensioni.
L’analisi dello stato psicologico del detenuto diveniva “tappa” necessaria al fine di assicurare che l’espiazione della pena perseguisse l’intento rieducativo e “riabilitativo” del condannato.
Al momento della esecuzione della pena l’attenzione si spostava dal reato al soggetto, per l’individualizzazione del trattamento, le misure dirette al mantenimento dei rapporti familiari e l’ammissione a misure alternative alla detenzione per limitare l’effetto “segregazione” e isolamento del detenuto ed, invece, consentire un adeguato contatto con il tessuto sociale non deviante.
La stessa individuazione del trattamento personalizzato, secondo il Regolamento, avveniva con la collaborazione del detenuto.
L’art. 27/2, infatti, sottolinea come l’osservazione della personalità, “è specificamente rivolta, con la collaborazione del condannato o dell’internato, a desumere elementi per la formulazione del programma individualizzato di trattamento” ed ancora, secondo il primo comma, lo stesso detenuto dovrebbe effettuare, con l’ausilio del professionista che si occupa dell’osservazione della sua personalità, “una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa”, come più di recente previsto dalla c.d. Riforma Cartabia.
Risulta evidente la volontà insita nella nuova normativa di rendere partecipe il soggetto che subisce l’esecuzione della pena facendogli assumere un ruolo attivo nella scelta delle misure allo stesso applicabili anche attraverso la diretta presa di coscienza, mediante la riflessione guidata dal professionista incaricato di condurre l’osservazione della personalità, della condotta antigiuridica e delle conseguenze lesive cui è necessario porre rimedio.
La sensibile attenzione che il Regolamento ha imposto allo stato psicologico del detenuto sin dal suo ingresso nel carcere si evince ancora dallo stesso art. 23, che prevede la necessità di riferire immediatamente al Magistrato di sorveglianza o all’autorità giudiziaria procedente, qualora si tratti di soggetto sottoposto ad una misura cautelare, le eventuali situazioni di rischio emerse durante i colloqui nonché di segnalare al servizio tossicodipendenze operante all’interno dell’Istituto situazioni di dipendenza.
Nella relazione si sostiene (…) in primo luogo, che il programma di trattamento deve essere specificatamente riferito al singolo individuo, dato che, nella prassi operativa, è troppo spesso generico, quindi inidoneo a fornire valide linee-guida mirate al recupero sociale del condannato.
La norma citata accentua, inoltre, gli aspetti del programma di trattamento che disegnano il percorso di riabilitazione del condannato e lo finalizzano al suo reinserimento sociale, rafforzando, anche in tal modo, la dimensione strettamente individuale entro cui il programma deve muoversi.
Novità di rilievo si registrano anche per la normativa relativa ai rapporti del detenuto con la famiglia
L’art. 28 dell’ordinamento penitenziario dispone che “particolare cura (sia) dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti o degli internati con le famiglie”(2-bis).
Tale principio sembra pervadere numerose norme del Regolamento.
Il particolare interesse per la tutela dei rapporti familiari giustifica l’imposizione alla Direzione del carcere, dell’immediata segnalazione ai servizi sociali quando risulti che i familiari non mantengano rapporti con il detenuto o l’internato.
Tale previsione costituiva il riconoscimento di uno dei diritti naturali proprio di ciascun individuo ossia il diritto alla vita e al mantenimento delle relazioni intime – affettive nonostante l’obbligata separazione dovuta alla detenzione.
Il Consiglio di Stato, nel parere sullo schema del regolamento, aveva auspicato, sul punto, un tempestivo intervento del legislatore diretto ad adeguare la normativa dell’Ordinamento Penitenziario alle nuove esigenze di tutela della sfera intimo affettiva dei detenuti.
Altra novità di rilievo era costituita dalla presa di coscienza dell’aumento progressivo della presenza di stranieri all’interno delle carceri e dal tentativo di apprestare misure idonee a limitare l’emarginazione culturale e linguistica che inevitabilmente tali soggetti vivono nei comuni rapporti sociali, accentuata notevolmente all’interno dell’istituto penitenziario (3).
L’art. 35, infatti, riproponendo quanto già previsto dal 1976,con la necessità di tenere conto, nell’attuazione delle misure privative della libertà, delle difficoltà linguistiche e delle differenze culturali e della necessità di favorire la possibilità di contatto con le autorità consolari del Paese cui appartiene il detenuto, ha previsto l’intervento di operatori di mediazione (ovvero interpreti e traduttori)che possano ridurre lo stato di emarginazione.
Non si tratta di semplici interpreti, la mediazione culturale vuole essere un mezzo per potere disporre interventi di trattamento che siano spendibili anche nei paesi di Origine, dal momento che la maggior parte dei detenuti stranieri verrà espulsa al termine dell’esecuzione della pena, ovvero possano sfociare, con esito positivo, nelle misure alternative alla detenzione(4).
E’ stato, infatti, lamentato che le difficoltà linguistiche e le differenze culturali spesso rendono difficile poter ammettere a tali misure gli stranieri dal momento che spesso non hanno alcun collegamento stabile sul territorio e alcun punto di riferimento necessario per un valido percorso di riabilitazione.
È per tale motivo che la stessa disposizione regolamentare permette di ricorrere a convenzioni con gli Enti locali e alle Organizzazioni di volontariato.
Il Regolamento, infine, ha introdotto numerose norme dirette a disciplinare uniformemente l’ammissione del detenuto al lavoro esterno all’istituto carcerario e alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale.
Seguono specifici interventi nei settori igienico sanitari e per l’accertamento dell’infermità psichica (art. 112), anche attraverso convenzioni con servizi pubblici (art. 118) sia pure con tutti i limiti che tale accertamento comporti e che sono stati sottolineati più volte dalla Dottrina(5).
Di particolare interesse dal punto di vista criminologico sono le seguenti norme.
Art. 114 – Coordinamento delle attività di ricerca dei centri di osservazione
L’attività di ricerca scientifica, svolta dai centri di osservazione, è diretta all’analisi e alla valutazione dei metodi di osservazione e di trattamento ed è coordinata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Art. 118 – Centro di servizio sociale (…)
- Nell’attuare gli interventi di osservazione e di trattamento in ambiente esterno per l’applicazione e l’esecuzione delle misure alternative, delle sanzioni sostitutive e delle misure di sicurezza, nonché degli interventi per l’osservazione e il trattamento dei soggetti ristretti negli istituti, il centro di servizio sociale coordina le attività di competenza nell’ambito dell’esecuzione penale con quella delle istituzioni e dei servizi sociali che operano sul territorio.
- Le intese operative con i servizi degli enti locali sono definite in una visione globale delle dinamiche sociali che investono la vicenda personale e familiare dei soggetti e in una prospettica integrata d’intervento. Tale coordinamento viene promosso e attuato osservando gli indirizzi generali dettati in materia dall’Amministrazione penitenziaria.
- In particolare, gli interventi del servizio sociale per adulti, nel corso del trattamento in ambiente esterno, sono diretti ad aiutare i soggetti che ne beneficiano ad adempiere responsabilmente gli impegni che derivano dalla misura cui sono sottoposti. Tali interventi, articolati in un processo unitario e personalizzato, sono prioritariamente caratterizzati:
dall’offerta al soggetto di sperimentare un rapporto con l’autorità basato sulla fiducia nella capacità della persona di recuperare il controllo del proprio comportamento senza interventi di carattere repressivo;
da un aiuto che porti il soggetto ad utilizzare meglio le risorse nella realtà familiare e sociale;
da un controllo, ove previsto dalla misura in esecuzione, sul comportamento del soggetto che costituisca al tempo stesso un aiuto rivolto ad assicurare il rispetto degli obblighi e delle prescrizioni dettate dalla magistratura di sorveglianza;
da una sollecitazione a una valutazione critica adeguata, da parte della persona, degli atteggiamenti che sono stati alla base della condotta penalmente sanzionata, nella prospettica di un reinserimento sociale compiuto e duraturo.
Anche l’istruzione scolastica diviene un elemento qualificante il percorso di riabilitazione: per tutti è prevista la scuola dell’obbligo ed, in ogni Regione, Corsi di scuola secondaria e universitaria.
Le nuove norme regolamentari non apportano una vera rivoluzione, tuttavia sposano alcuni principi fondamentali del precedente regolamento e dell’attuale legge sull’Ordinamento penitenziario cui occorreva dare attuazione, con piccoli accorgimenti tendono al possibile miglioramento della vita all’interno dell’istituzione carceraria in una prospettiva di recupero ed integrazione del detenuto ( art.37/13).
Conclusioni
Le nuove disposizioni introdotte dal Legislatore se, da una parte, tendevano ad una semplificazione delle vecchie(e stantie) procedure nei casi di immediata applicazione dei provvedimenti di esecuzione ovvero di ammissione ai benefici stabiliti dall’Ordinamento Penitenziario in favore dei detenuti più meritevoli e che abbiano dato prova effettiva di partecipazione all’opera di rieducazione, non appaiono, ad oggi, sufficienti a risolvere il problema delle Carceri sovraffollate oltre misura..
Le ragioni di tale situazione vengono indicate per l’aumentata presenza di detenuti stranieri, la mancanza di personale di sorveglianza, l’aumento di soggetti sottoposti ad una misura cautelare, l’assenza di nuove Carceri.. etc.
Si continua a discutere in Parlamento della introduzione di una nuova legge di condono che, per quanto controversa essa appaia, risulterebbe in linea con la necessità, oltre che di velocizzare i procedimenti pendenti, con la esigenza di eliminare quelle pene minori ancora da scontare e che riguardano il maggior numero dei detenuti nelle Carceri italiane.
Di recente un tale provvedimento è stato invocato, per ragioni umanitarie, dallo stesso Santo Padre.
In mancanza di una legislazione “miracolistica” che sappia affrontare e risolvere in tempi ristretti il problema, non resta al Legislatore che ricorrere ad un provvedimento generalizzato di condono in vista della positiva introduzione di innovazioni procedurale che valgano ad evitare il ripetersi del fenomeno.
In Parlamento, inoltre, sono state presentate varie proposte di legge in tema di indulto revocabile, amnistia e amnistia condizionata, aumento dei termini per la la liberazione anticipata, tutte con l’obiettivo comune di trovare una soluzione legislativa che sappia contemperare la necessità di rendere più vivibili e meno disumani gli istituti penitenziari del nostro Paese, di tutelare le esigenze di sicurezza della collettività, di fare diminuire la recidiva, e di non dimenticare i danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dalle vittime dei reati, come stabilito dalla introduzione della Riforma della Giustizia Riparativa anche nella fase della esecuzione penale. .
In tale direzione occorre, tuttavia, ricordare la proposta di legge avanzata dal Sen. Giuliano Pisapia e che concerneva la estensione della sospensione condizionale della pena per le pene fino a tre anni, mai approvata !!.
Il Sen. Pisapia, dal canto suo, proponeva- in alternativa a un provvedimento di amnistia, eventualmente condizionata, o di indulto revocabile, la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di tre anni con conseguente estinzione della pena qualora chi ne usufruisca non commetta un nuovo reato nei cinque anni successivi e ottemperi a determinate prescrizioni e, per quanto possibile, si adoperi in favore della vittima del reato(!!).
La sospensione dell’esecuzione della pena detentiva comminata, nel limite massimo di tre anni, potrebbe anche essere accompagnata da precise prescrizioni (esempio obbligo di soggiorno, obbligo di firma, divieto di espatrio, attività in favore delle vittime dei reati), che, solo se ottemperate dal condannato – che comunque non dovrà commettere nuovi reati nei cinque anni successivi – porterebbero alla estinzione della pena.
In caso contrario, il condannato dovrebbe scontare l’intera pena in carcere, senza possibilità di usufruire di benefìci o di pene alternative.
Dunque, ferma restando la salvaguardia delle esigenze di tutela e sicurezza della collettività, tale proposta costituirebbe anche un efficace strumento di deterrenza rispetto alla commissione di nuovi reati e favorirebbe, nel contempo, il reinserimento dei detenuti e il risarcimento delle parti lese.
La proposta di legge Pisapia(6),che risale al 2002, ha, invero, preso spunto da analoghi istituti in vigore in altri Paesi che hanno dato esito particolarmente positivo (esempio la probation negli Stati Uniti) – non vuole essere un mero provvedimento “tampone” di fronte a una situazione di emergenza, ma intende raggiungere, con il contributo più largo, l’obiettivo di rendere più umane e vivibili le nostre carceri, non solo per i detenuti ma anche per tutti coloro che quotidianamente operano e lavorano all’interno degli istituti penitenziari, e dare una risposta a chi da tempo si batte per un diverso rapporto tra carcere e società, nell’interesse più generale dell’intera collettività.
Mario Pavone