Viviamo un momento di accelerazione della crisi della nostra democrazia, un momento nel quale il disincanto democratico contemporaneo pare avere la meglio sulla prospettiva di dare vita ad un modello di democrazia all’altezza delle sfide in atto. Come far diventare reali le democrazie nominali e come assicurare la partecipazione effettiva nella deliberazione politica? Come scongiurare il rischio di una democrazia senza cittadini?
Per sua natura la rappresentanza politica si basa sul confronto, sull’incontro di opinioni e interessi, tanto che il sistema parlamentare è sempre stato considerato come un “government by discussion”.
Nel secolo scorso, snodo essenziale di tale sistema sono stati i partiti politici, camere di elaborazione delle opinioni. Da quando è nato, tale meccanismo ha sempre conosciuto imperfezioni e quasi sempre la democrazia ha trovato i suoi antidoti. La situazione odierna presenta una grande novità. Accade infatti che i messaggi brevi e fulminei dei social sono tanto più efficaci quanto più disconnessi da qualsiasi riflessione e sono tanto più efficaci quanto più sono radicali. Gli algoritmi fanno prevalere le posizioni più semplici e dunque drastiche, che accentuano il divario tra “noi” e “loro”. Non costruiscono opinioni ma catturano e forgiano identità, esasperando una inclinazione ben nota agli psicologi, secondo cui prestiamo ascolto a ciò che già ci è familiare. Non solo, ma riconosciamo e aderiamo alle idee che già abbiamo, cioè viviamo in una “eco-chamber”. In tale contesto, il discorso politico diviene refrattario ai dati di fatto e pure alle verifiche. Come ha mostrato il noto giurista americano Cass S. Sustein, una falsa notizia prevale sempre sulla sua smentita o sulla notizia vera, cioè verificata. Il fatto è che, oggi, c’è scollamento tra messaggio e significato, tra demagogia e dati di fatto. Nati per diffondere prodotti e generare profitti, gli algoritmi, i vari Facebook, Twitter o Google, offrendo gratuitamente servizi e prodotti, vanno facendo degli stessi utenti un prodotto che genera profitti.
Di populismi distruttivi ce ne sono sempre stati; le società li patiscono e li superano. Come? Aggrappandosi alla verità. Oggi, però, questo vecchio meccanismo di difesa sta venendo meno. La post verità – che non è l’accreditare le bugie come verità, quanto piuttosto l’intorpidire le acque al punto tale che diventa praticamente impossibile distinguere il vero dal falso – minaccia gli anticorpi che usano la democrazia per curarsi dalla malattia dei populismi e resistere al continuismo. In situazioni del genere, il sistema scivola verso una democrazia “taroccata”, o meglio verso quella forma degenerata di democrazia che ha il nome di oclocrazia, cioè governo delle masse, delle moltitudini, e delle loro pulsioni e istinti.
Alla luce di quanto sopra, si comprende perché sia oggi urgente porre mano, e in fretta, alla vexata quaestio della comunanza etica nella società del pluralismo, come ha di recente scritto Francesco Viola. Il pluralismo contemporaneo per definizione rifiuta l’idea di un’etica comune. Al tempo stesso, la vita associata esige una comunanza (la koinotes di Aristotele) fondata su principi etici se non vuole ridursi a mero proceduralismo. Accade così che ci si rifugi nel relativismo, nella convinzione che il metodo dello svincolo (avoidance) sia l’unica strada percorribile per evitare il conflitto e per assicurare una parvenza di pace sociale. Che si tratti di pericoloso errore dovrebbe essere chiaro a tutti, perché chi crede di sapere, non sapendo di credere, non si pone domande, e dunque non ricerca il dialogo.
Una società del pluralismo non può certo essere sorretta da un’etica univoca, ma può aspirare ad una inter-etica generata dall’incontro di quelle varietà culturali che abitano la stessa vita pubblica. Invero, la comunanza che si cerca non può essere né quella propria di una comunità culturale, né quella propria di una comunità religiosa, ma quella di una comunità politica che rifiuta decisamente l’orizzonte hobbesiano (tuttora in auge, purtroppo) secondo cui l’agire politico è solamente quello che si svolge dentro le istituzioni rappresentative. Sappiamo che il modello hobbesiano non funziona più, ma continua a produrre mali di sistema. Cosa, allora, si deve fare? Prendere il coraggio di riconoscere che il modello di democrazia elistico-competitivo non è più in grado di dare ali alla celebre affermazione di Henri Bergson secondo cui: “Così è la democrazia: proclama la libertà, rivendica l’eguaglianza e riconcilia queste due sorelle nemiche, ricordando loro che sono sorelle”. Invero, presi singolarmente, principio di libertà e principio di eguaglianza sono difficilmente armonizzabili; è solamente il principio democratico a farli marciare insieme.
Tre sono le caratteristiche essenziali di tale modello dovuto a Max Weber e a Joseph Schumpeter. La democrazia è principalmente un metodo di selezione di un’elite che, essendo esperta, è capace di prendere le decisioni necessarie, date le circostanze. La democrazia è dunque la procedura per arrivare a selezionare, all’interno della società, coloro che sono in grado di prendere le decisioni di volta in volta richieste dal corpo politico. La seconda caratteristica è quella di ostacolare gli eccessi di potere della leadership politica. Poiché il rischio della degenerazione e dell’abuso di autorità non può mai essere scongiurato, è opportuno inserire negli ingranaggi del potere “granelli di sabbia”. E quale modo migliore per conseguire un tale risultato di quello di far soffiare, sui partiti politici, il vento della competizione? La terza caratteristica, infine, è che il modello in questione si qualifica per il suo orientamento al progresso della società. Si noti l’analogia: come nell’arena del mercato le regole della competizione economica servono ad assicurare un’efficiente allocazione delle risorse e quindi il più alto tasso possibile di sviluppo, così, alla stessa stregua, nella sfera politica i partiti gareggiano fra loro per vincere le elezioni massimizzando i rispettivi consensi. In definitiva, l’idea di base del modello è che le imprese gestiscono i mercati e i governi regolano le imprese; d’altra parte, le burocrazie di vario tipo gestiscono l’amministrazione pubblica e il governo controlla e regola la burocrazia. Con il che è alla sfera della politica che è demandato il compito di tracciare il sentiero di marcia della società intera.
Tanti sono stati i risultati positivi che questo modello di democrazia – con le sue molteplici varianti nazionali – ha consentito di ottenere a partire del secondo dopoguerra. Ma gli attuali mutamenti di portata epocale (iperglobalizzazione, nuove tecnologie digitali, singolarismo; questione ambientale) l’hanno reso inadeguato, non più capace di far fronte alle nuove sfide. La democrazia deliberativa, invece, mostra di essere all’altezza della situazione. Basicamente, la ragione è che per tale modello non è ammissibile che il benessere, lo star bene degli emarginati e degli svantaggiati dipenda – a seconda delle circostanze – dallo “stato benevolente” o dalle istituzioni del “capitalismo compassionevole”. Piuttosto, esso deve essere il risultato di strategie di inclusione nel circuito della produzione – e non tanto in quello della redistribuzione – della ricchezza.
Tre elementi connotano il metodo deliberativo. Primo, la deliberazione riguarda le cose che sono in nostro potere. (Come insegnava Aristotele, non deliberiamo sulla luna o sul sole!). Dunque, non ogni discorso è una deliberazione, la quale è piuttosto un discorso volto alla decisione. Secondo, la deliberazione è un metodo per cercare la verità pratica e pertanto è incompatibile con lo scetticismo morale. In tale senso, la democrazia deliberativa non può essere una pura tecnica senza valori; non può ridursi a mera procedura per prendere decisioni. Terzo, il processo deliberativo postula la possibilità dell’autocorrezione e quindi che ciascuna parte in causa ammetta, ab imis, la possibilità di mutare le proprie opinioni alla luce delle ragioni addotte dall’altra parte. Ciò implica che non è compatibile col metodo deliberativo la posizione di chi, in nome dell’ideologia o di interessi di parte, si dichiara impermeabile alle altrui ragioni. E’ in vista di ciò che la deliberazione è un metodo essenzialmente comunicativo.
Certo, non pochi sono i nodi pratici che devono essere sciolti perché il modello di democrazia deliberativa possa costituire una alternativa pienamente accettabile rispetto a quello esistente. Ma non v’è dubbio che la concezione deliberativa di democrazia, sia, oggi, la via che meglio di altre riesce a affrontare i problemi dello sviluppo e del progresso dei nostri paesi. Ciò in quanto essa riesce a pensare alla politica come attività non solo basata sul compromesso e l’inevitabile tasso di corruzione che sempre lo accompagna, ma anche sui fini della convivenza stessa e dell’essere in comune. Inoltre, essa è anche la via più efficace per rilanciare il ruolo del civile, accanto al pubblico e al privato, e soprattutto per contrastare il serio disallineamento tra mercato e democrazia, di cui mette conto dire.
E’ un fatto che fino a tempi recenti il capitalismo, quale modello economico, è sempre stato associato, alla democrazia come modello di ordine socio politico – pur essendo vero che vi sono stati periodi, peraltro di durata limitata, nei quali questa associazione è venuta a mancare: si pensi alla Corea del Sud, al Cile, oltre che a quanto è accaduto all’Europa nella prima metà del ‘900. La grande novità dell’oggi è che quel legame tra democrazia e capitalismo si va dissolvendo. Si parla, infatti, di orientalismo per significare che quella occidentale non è più la civiltà di riferimento per guidare il processo di sviluppo economico. Il fatto sconcertante è che il nuovo capitalismo finanziario (che ha fatto seguito a quello industriale) non ha problemi ad adattarsi a una pluralità di matrici religiose, culturali, etniche. Sappiamo infatti che la finanza speculativa è diventata fine a se stessa, cioè autoreferenziale, e dunque ha un rapporto sempre più remoto e astratto con il valore economico reale la cui creazione essa dovrebbe favorire. In altro modo, le attività speculative nel mercato finanziario privano di ogni stabilità il rapporto tra il valore dei beni e il modo in cui esso viene rappresentato dai nuovi strumenti finanziari. Non così sono andate le cose con il capitalismo “nazionale” che invece si è eretto sui valori e sulle tradizioni occidentali nel momento in cui si è imposto sul precedente modello di ordine sociale.
La novità odierna è che si può avere capitalismo senza democrazia e, più in generale, prescindendo dai cosiddetti valori occidentali. In particolare, il capitalismo “globale” non ha bisogno di fare leva sull’utilitarismo Benthamiano e sull’individualismo libertario per affermarsi. Anzi, la sua diffusione a macchia d’olio molto deve alla sua capacità di esonerarsi dall’impegno a valori come quello della dignità della persona e a quelli della democrazia liberale. E’ dunque errato pensare che la persistenza delle tradizioni e delle norme sociali di comportamento premoderne rappresenti un ostacolo al capitalismo globale. Al contrario, la fedeltà a queste tradizioni e principi è ciò che permette a paesi come la Cina, Singapore, India e tanti altri ancora di percorrere la strada del processo capitalistico in modo persino più radicale che nei paesi dell’Occidente. E’ facile darsene conto: è assai più agevole invocare l’identità nazionale per legittimare sacrifici e imposizioni di natura antidemocratica ai propri cittadini. Sta accadendo che la “nostra” democrazia liberale va cedendo spazio al populismo, a quella concezione che considera il popolo non più come categoria sociologica e politologica, ma come categoria morale. La competizione politica – per l’ideologia populista – è tra le virtù (che appartengono al popolo) e le non virtù (che appartengono al non popolo) e il leader è colui che riesce ad incarnare lo spirito del popolo. Per questo, il populismo respinge la democrazia deliberativa a favore della democrazia diretta.
E’ utopico pensare di poter far stare assieme mercato e democrazia? C’è chi lo pensa; ma chi scrive non è tra questi. In ogni caso è della distopia, assai più che dell’utopia, che si deve temere quando si è all’inizio di un cammino. La distopia è la malattia che colpisce chi soffre delle “passioni tristi”, nel senso di Spinoza. Non però la tristezza del pianto o della fatica, ma quella della delusione o della disperazione. Il Paese che è stato culla dell’Umanesimo, prima, e del Rinascimento, poi, non può cadere vittima di simili disposizioni d’animo.
Stefano Zamagni