La democrazia è una condizione cui può accadere che fatta salva la forma, se ne smarrisca la sostanza. Questo può succedere tramite una involuzione lenta eppure corrosiva, graduale e progressiva, che finisca per essere accompagnata, grazie ad un’ assuefazione soporosa, dal tacito e perfino soddisfatto assenso di coloro la cui libertà viene di fatto mutilata e mercanteggiata con un supposto più di sicurezza. Ne danno conto anche le innovazioni lessicali che compaiono, quasi nascessero d’ incanto, nel nostro linguaggio che è sempre buon testimone delle evoluzioni che si muovono nel corpo sociale e spesso ce le svelano ancor prima che le mettiamo a tema.
Tra democrazia e dittatura si sono introdotti nuovi termini, quali “democratura” ed “autocrazia”, che stanno ad indicare una china, per gradi, discendente e scivolosa che mina le garanzie dell’ ordinamento democratico e via via ne risucchia fuori i frammenti, svuotando, dal di dentro, il guscio costituzionale che le proteggeva.
L’attacco alla democrazia non è necessariamente aggressivo e violento. O meglio, la violenza non è sempre fisica e brutale. Può assumere forme subdole e suadenti che, quasi per osmosi, intridono di veleno un contesto civile che via via si inaridisce e poi mostra fessure che lo frantumano come un terreno fangoso riarso dal sole. La diffidenza nei confronti di chiunque sia, a qualunque titolo, “diverso”, alimentata ad arte, diventa sospetto e poi avversione ed aperta ostilità, per scivolare, infine, verso un livore rancoroso ad un passo dalla xenofobia e dal razzismo.
Si tratta di percorsi che hanno una loro infernale psicologia apparentemente innocente e, quindi, tale da coinvolgere anche persone assolutamente perbene, che mai ne accetterebbero l’ approdo conclusivo di sostanziale odio sociale, se ne venissero messe d’ un tratto ed immediatamente di fronte. Le teorie del “capro espiatorio” oppure del “complotto” sono le più facili e false categorie interpretative che cercano di riportare ad una supposta dimensione di senso compiuto questo magma di sentimenti dissonanti e confusi che, anche nel nostro Paese, sono stati promossi. L’una e l’altra alludono al “nemico”, esigono una rigorosa postura difensiva, innalzano muri e, nel contempo, evocano una sorta di redenzione, una catarsi che restituisca una qualche innocenza originaria, svelando le nequizie altrui di cui si è legittimati a ritenersi vittime innocenti.
Si entra in un meccanismo perverso che conduce ad un rivolgimento interiore, di cui neppure si ha reale e piena avvertenza, ma comunque tale da velare il confine tra il bene ed il male, fino a scambiare l’ uno con l’altro. E’ un percorso che in epoche storiche – oggi fortunatamente non più riproducibili – ha generato mostri.
Il sovranismo è il vallo che circonda ed avvolge questo mondo separato ed il populismo ne rappresenta la filosofia politica. Il nazionalismo – come lo si può intendere oggi in un mondo aperto e globale – non si discosta da una tale visione, se non perché crede di nobilitarla rivendicando l’orgoglio delle sue radici storiche e culturali, i momenti topici e le gesta eroiche che pur vi sono nella vicenda di ogni popolo ed hanno concorso a configurarne l’identità.
L’omologazione dei costumi, il conformismo, la ricerca egemonica di un pensiero unico, il progressivo contenimento degli spazi di autonomia critica e di dissenso completano il quadro di quell’impoverimento del discorso pubblico che quotidianamente è sotto i nostri occhi.
Domenico Galbiati