Profonde spaccature nei più diversi ambiti caratterizzano da tempo le società occidentali.
Sul terreno economico-sociale assistiamo al crescente divario di reddito e di ricchezza fra chi sta in alto e chi in basso, tale da giungere a determinare una lontananza nei modi e nei luoghi di vita fra l’élite e le classi popolari, rendendole estranee. Scriveva Christopher Lasch già negli anni Novanta: “Il denaro isola i ricchi dalla vita comune molto più di quanto succedesse in passato. Le classi dominanti si sono estraniate dagli aspetti materiali della vita. L’unico rapporto con la realtà produttiva è rappresentato dal consumo. Non hanno esperienza di come produrre qualche cosa di solido e duraturo. Il dogma del pensiero post-moderno riflette l’esperienza di chi vive in un ambiente artificiale dove è stato escluso tutto quanto resiste al controllo umano. Per isolarsi dal rischio del contingente, i membri dell’élite si sono isolati dal mondo comune e dalla realtà”.
Inoltre, si è instaurata una contrapposizione fra quanti hanno tratto beneficio dalla globalizzazione, o non ne sono stati svantaggiati, e l’ampia fascia dei vinti della globalizzazione, da questa espulsi o marginalizzati nel processo produttivo. È quest’ultima una frazione della popolazione che, non vedendo alcuna strada davanti a sé, sfoga la sua rabbia verso la classe dirigente contestando talora violentemente ogni misura governativa (anche quando ragionevole) che possa creare un qualche temporaneo disagio. Ne sono un esempio, ieri, le agitazioni dei gilet gialli, e oggi la rivolta contro la riforma delle pensioni in una Francia che, come l’America, sovente anticipa i tempi che ci attendono. Infine abbiamo un ceto medio disorientato per la continua perdita di terreno sul piano economico e sociale.
Con l’affermazione planetaria del turbocapitalismo si è realizzato un cambiamento, caratterizzato dalla terziarizzazione e dalla globalizzazione, che ha condotto ad abbandonare l’etica del lavoro produttivo e il senso di appartenenza a comunità ancorate ad un territorio. Questa trasformazione è andata oltre il terreno economico, ed è stata uno dei fattori della liquefazione della società che caratterizza la modernità attuale. Si sono indeboliti i legami interpersonali e più marcatamente quelli di appartenenza familiare, nazionale, di classe, professionale, ecc.
Sono venuti a mancare valori comuni e stabili punti di riferimento su cui orientare i comportamenti. Così, nell’influenzare i modi di vita, hanno assunto un ruolo centrale i mezzi di informazione veicoli di una ideologia neoliberale che fa sue preminenti finalità la promozione dei consumi, il culto del successo e della ricchezza, portando a un crescente individualismo.
Oggi, interpreti di questa visione del mondo sono in particolare i membri di una élite meritocratica che anticipa con i suoi comportamenti le tendenze destinate presto a diventare di massa. Tuttavia, sono ancora molti a non accettare le novità loro continuamente proposte (il cosmopolitismo, il politicamente corretto, le applicazioni della teoria gender, la cancel culture, la promozione a “diritti” di pratiche lesive della dignità dell’essere umano, ecc.): fra questi, c’è chi, avendo una fede religiosa, dispone di solidi strumenti di orientamento che lo sottraggono all’omologazione; ma i più li troviamo nei ceti popolari e fra le persone di una certa età che hanno visto, nel corso della vita, il progressivo capovolgimento di tutto quando hanno assimilato in gioventù; ci sono poi quei giovani in cerca di ideali che la società attuale non sa proporre. Quindi anche su questo terreno, si verificano fratture e contrapposizioni.
Di fronte a questa società frantumata in mille pezzi, il primo quesito che dobbiamo porci è: che cosa può fare la politica? Il compito di ogni partito dovrebbe essere mettere insieme quanto più possibile dei vari cocci, smussandone gli spigoli, eliminandone le incompatibilità, mediando per proporre dei progetti realistici in grado di soddisfare le domande dei più, o quanto meno di quello che tradizionalmente è, o è stato, il suo elettorato di riferimento.
Un bipolarismo incentrato sulla classica distinzione destra/sinistra è in grado di svolgere un tale compito?
“Per quanto attiene ai valori, mi sento di destra; in tema di eguaglianza e di apertura alle istanze popolari, guardo alla sinistra” è un discorso che ho sentito più volte. Altri si dicono di sinistra in tema di diritti individuali, di apertura alla modernità, ma precisano di essere per il merito, e ritengono inaccettabile l’egualitarismo, secondo loro, ancora presente a sinistra. Anche su questioni riguardanti l’ambiente, la politica estera, la scuola, la cultura, l’immigrazione ed altro, troviamo persone d’accordo con la sinistra, oppure con la destra, su qualche tematica, ma in netto contrasto sulle rimanenti. Pertanto, le proposte fornite da un sistema politico polarizzato su destra e sinistra lasceranno insoddisfatti molti cittadini, e porteranno acqua al solo bacino dell’astensionismo.
È venuto il momento di nuove formazioni politiche riconducibili a un centro non inteso soltanto come posizionamento fra destra e sinistra, ma piuttosto come soggetto atto a proporre alternative a queste ultime?
Da qualche tempo, la classe politica viene da molti ritenuta incompetente, non solo perché impreparata, ma per il fatto che i problemi da affrontare hanno sempre più natura tecnica. Le soluzioni non si trovano nel bagaglio ideologico della destra o della sinistra, ma sono alla portata di chi sa di tecnica. Quindi, accantonati i due tradizionali poli alternativi, si deve fare spazio ai competenti delle varie discipline mettendo al governo i tecnocrati. Chi voleva mantenere a lungo Draghi al governo era su questa linea. Anche Macron in Francia può essere ricondotto ad una similare matrice, ma attualmente non sembra avere di fronte a sé un futuro promettente. Oggi, nel nostro Paese, con Calenda, un tale progetto nasce già morto.
Molti amici dell’Associazione Popolari guardano alla Dottrina Sociale della Chiesa per dare corpo (come ha scritto Stefano Zamagni) a un progetto di trasformazione della società che attui il passaggio dall’attuale ordine fondato su Stato e Mercato ad un modello tripolare che ai primi due riferimenti associ la Comunità, una trasformazione per dare concretezza al principio di sussidiarietà e consentire una vera partecipazione. Giorgio Merlo ritiene venuto il momento per un centrismo dinamico nel solco di quel cattolicesimo popolare che nel secondo dopoguerra è stato determinante nella ricostruzione del Paese, trasformandolo in una realtà industriale di primo piano e in una democrazia compiuta.
Ora, non dubito del valore del patrimonio culturale del mondo cattolico e delle risorse umane che possiede. Debbo tuttavia osservare che viviamo in una Europa scristianizzata. Non alludo solo al sempre più ridotto numero di persone praticanti o sia pure sporadicamente frequentanti le chiese; oggi quel “non possiamo non dirci cristiani”, con cui Croce evidenziava un connotato essenziale del tratto europeo, è anch’esso messo in discussione, quando non apertamente combattuto, da quell’élite politico-culturale al vertice delle istituzioni europee e dei principali Paesi della UE. Aggiungo che tale élite considera reazionario ogni riferimento al comunitarismo, e non sarà certo aperta alla riproposizione della Comunità. Quanto proposto è quindi un cammino in forte salita percorrendo il quale sarà forse possibile gettare della buona semente ma difficilmente raccogliere già dei frutti.
Andrea Griseri si è interrogato sullo spazio riservato a un centrismo moderato, inteso come atteggiamento mentale per affrontare, con approccio metodologico popperiano, una realtà complessa in un mondo imperfetto in cui non c’è nulla di definitivo. Il suo discorso ha punti di contatto con una analisi di Claudio Velardi, per il quale ci sarebbe posto al centro per un voto pragmatico da parte di coloro che rifiutano le logiche di stampo manicheo e non si riconoscono nella destra e nella sinistra per le posizioni da queste assunte su molte tematiche. Tali persone, sui problemi al momento ritenuti più urgenti o più rilevanti (come ad esempio la guerra, il piano di resilienza, il contrasto al cambiamento climatico), sono tuttavia disposte, accantonando temporaneamente le tematiche ove rimangono le distanze, a votare chi pare loro aver assunto in merito a dette questioni una posizione ritenuta più ragionevole o vicina alle proprie idee. Sempre disponibili, però, a votare diversamente in sede locale, o in successive tornate elettorali.
La possibilità di esistenza di un tale spazio al centro dipende da quanti non siano stati ancora contagiati da quel “tifo” simil-calcistico che spinge a schierarsi su ogni questione a favore di una tesi demonizzando l’altra ad essa opposta, o le altre (poiché sovente i punti di vista sono molteplici), rifiutando ogni confronto e perfino negandosi all’ascolto di argomentazioni che non siano quelle della propria fazione.
Certo di persone immuni dal contagio ce ne saranno molte, ma il cattivo esempio viene dall’alto. La faziosità e il rifiuto di ogni serio confronto connotano i comportamenti di troppi esponenti politici, addetti all’informazione (giornalisti, conduttori televisivi), personalità dello spettacolo e della cultura. Per loro, ogni occasione è buona per gettare benzina sul fuoco. In questo clima deteriore, è difficile far sentire la voce della ragionevolezza al comune cittadino.
Forse pretendiamo troppo dalla politica chiedendo ad essa una via di uscita da questa situazione critica che risale a responsabilità non solo sue. Si tratta infatti di una crisi che investe l’intera società con i tipici fenomeni che ne accompagnano il declino culturale ed etico, ciò che riguarda in primo luogo i Paesi europei, sempre più proni, come ha scritto Domenico Accorinti, a tutto quanto giunge dagli Stati Uniti.
Alla sua base, ci sono cause che già avevano contrassegnato la scomparsa di passate civiltà: il mancato rispetto del territorio con l’eccessivo consumo o la dissipazione delle sue risorse (il rapporto odierno fra impronta ecologica e territorio è fortemente squilibrato per l’intera Europa); l’adozione di modelli vita che incidono negativamente sulla riproduzione dando luogo a forme patologiche di denatalità (il valore della fecondità femminile si pone al di sotto di 2 in tutti i Paesi europei, Francia compresa); una progressiva perdita della propria identità culturale e della connessa coesione sociale.
A ciò, oggi possiamo aggiungere: la dimenticanza del passato, la cui conoscenza è invece indispensabile per comprendere il presente e progettare il domani; un relativismo spinto per il quale i valori si scelgono alla carta, di volta in volta, a seconda dei desideri del momento; il venir meno di ogni stabile criterio di giudizio in ogni ambito (morale, estetico, comportamentale, ecc.) poiché, con l’affermarsi del politicamente corretto, tutte le cose devono essere considerate equivalenti, il che significa che non c’è più niente che abbia valore; il rifiuto di impegnarsi in grandi progetti collettivi (come è stata la ricostruzione del nostro Paese nel secondo dopoguerra), per disinteresse, mancanza di energia, prevalenza del proprio “particulare”, incapacità di immaginare un futuro anche prossimo.
Ora, una situazione critica può essere l’annuncio di una fine, come è avvenuto nel corso della storia per civiltà, nazioni, formazioni statali di vario tipo che si sono affermate con la propria cultura, le proprie istituzioni e modalità di vita, hanno raggiunto un acme e poi sono tramontate. Ma, come è stato detto autorevolmente in questi giorni, il termine “krisis” significa “scelta” e quindi passaggio a qualche cosa d’altro. Probabilmente stiamo vivendo in una fase di transizione che annuncia un nuovo inizio.
Mi auguro che il meglio della millenaria civiltà europea possa contribuire a dare forma al nuovo che verrà, sapendo che ciò dipende anche da quanto già ora saprà fare ciascuno di noi nei luoghi e negli ambiti in cui vive.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)