La storia è piena di cattolici, ma anche di credenti di altre fedi religiose, che hanno vissuto il dramma del giudizio sulla guerra. Anzi, potremmo dire che in Europa, e in altre larghe parti del mondo in cui si è diffuso il Cristianesimo, è questione bimillenaria che ancora persiste. Ovviamente, non sul piano di un giudizio generale che porta ad una considerazione scontata, e a priori, a dirsi a favore della Pace. E non è proprio un caso se i Padri Costituenti scrivessero l’art 11 della nostra Carta fondativa anche con il convinto coinvolgimento dei parlamentari cattolici.

Ma questa non è la sede per una speculazione astratta su di una questione non di poco conto, tanto forte dal riproporsi ciclicamente, visto che l’Umanità continua a non capire che il conflitto armato è sempre una sconfitta per tutti. A maggior ragione oggi quando più esaltiamo l’uso delle armi “intelligenti” e più contiamo le vittime in crescita esponenziale tra i civili e le inutili distruzioni di case, di infrastrutture e di luoghi di produzione.

Oggi, per quanto ci riguarda, la questione nella sua più evidente crudezza è riproposta in maniera diretta dalla Guerra in Ucraina e, in maniera indiretta, dal conflitto in corso a Gaza e nei Territori occupati della Cisgiordania. Nel primo caso, infatti, anche noi siamo coinvolti nel conflitto, e non solo per la immediata prossimità del confine terrestre dell’Europa di cui facciamo parte e per il ruolo della Nato. E come Europa e come Nato, siamo da un lungo tempo vicino a quel tenue filo oltrepassato il quale, da europei e da partecipanti dall’Alleanza occidentale, rischiamo di ritrovarci in guerra.

E’ inevitabilmente, allora, che anche i cattolici s’interroghino e finiscano per giungere a conclusioni diverse e, persino, divergenti. Sul giudizio generale da dare e, nel caso concreto, anche sulle armi da inviare. E non è facile assumere una presa di posizione netta che, in qualche modo, assorba o, almeno, provi a misurarsi con le altre ragioni, talvolta totalmente di segno opposto.

Allora, non resta che, da un lato, provare ad andare indietro fino a ritrovare il punto in cui, tra i contendenti, si è recisa l’attitudine alla convivenza e si è scelta la via armata. Dall’altro, affidarsi al Diritto internazionale.

Questi due processi sono, forse, gli unici a poterci indicare tutti i possibili pertugi da sfruttare per partecipare, nei limiti del proprio peso e delle proprie responsabilità, ad indicare una soluzione di pace che, ad un certo punto, non finisca per essere solo determinata dalle sorti del conflitto armato le quali, come in molte altre occasioni del passato, potrebbero offrire solo la stura ad altre, successive guerre.

Ora, nel caso dell’Ucraina, siamo di fronte ad un aggressore e ad un aggredito che non può e non deve essere abbandonato al proprio destino. E non tanto perché c’è il rischio che l’aggressore vincitore trovi l’occasione per andare oltre. Il problema di fondo è quello del rispetto della pacifica convivenza, dei confini, della storia, della cultura e della libera ed autonoma scelta di una religione, di un’organizzazione sociale, economica e di un sistema statuale che tutti i popoli hanno il diritto di darsi e di definire. Coerentemente con i principi democratici raggiunti, e sanciti da tante costituzioni, oltre che con la nascita delle Nazioni Unite, nel corso di un lungo percorso avviato all’Umanità decisa ad affrancarsi degli istinti primordiali della violenza collettiva.

L’Ucraina ha il diritto ad una propria libera esistenza e al rispetto della propria integrità. Su questo non c’è dubbio alcuno e l’aiuto alla difesa dall’aggressione russa non credo possa essere discussa da alcuno.

Resta la valutazione su come questo aiuto debba essere fornito, assieme ad un’adeguata ponderazione sull’attitudine con cui la scelta di campo è condotta. Non serve un pacifismo di maniera che non tiene conto delle ragioni storiche accampate dai contendenti. Credo che, più che dirsi pacifisti, sia importante essere operatori di pace la cui forza non è assicurata da un disimpegno a tutti i costi perché la guerra finisca a tutti i costi. Sorvolando, ad esempio, sulle attese degli ucraini, ma anche di quelle delle popolazioni russofone dei territori ancora formalmente ucraini.

Proposte di pace sono state più volte avanzate nel corso di quello che tra poco diventerà un triennio di dura e selvaggia guerra. Credo che si debba tenere accesa questa tenue luce che, molto spesso, sembra destinata a spegnersi definitivamente. E lo si deve fare cercando di ascoltare più la voce delle popolazioni coinvolte piuttosto che quelle degli apparati militari industriali che, con politici miopi e interessati, hanno finito per impadronirsi di un conflitto che tanto tempo fa avrebbe potuto essere evitato.

Giancarlo Infante

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