Se volessimo scavare nella storia contemporanea del nostro Mezzogiorno e se volessimo, in pari tempo, applicarci in quest’impresa con tutto il discernimento possibile e immaginabile, dovremmo arrivare a una sola conclusione. Il Mezzogiorno non è mai stato terra di rivoluzioni.
Quel grande giornalista che fu Giovanni Russo sosteneva che la vera rivoluzione dei meridionali si era manifestata nell’emigrazione. Sembrerebbe un paradosso, ma non lo è. Il Brigantaggio, le sommosse popolari e le ribellioni all’ordine costituito non hanno mai generato una rivoluzione politica o un rivolgimento dell’ordine sociale. Dopo la fine del regno normanno-svevo, in cui i meridionali si sentivano parte costitutiva dello Stato, e non popolo conquistato e sottomesso, le cose sono andate sempre storte. Infatti, con le dominazioni angioina, aragonese e borbonica, è iniziato il lungo declino del Sud. Che non possiamo addebitare ad un destino cinico e baro. Nient’affatto! Ci sono altre e ben precise eredità. Le dominazioni straniere con il loro sistema feudale ben radicato hanno creato una struttura sociale fortemente gerarchica e conservatrice.
Tutto questo ha ostacolato il nascere di movimenti rivoluzionari. Che non sono nati perché l’Italia, e in particolare il Sud, non ha mai avuto, a differenza di Francia e Inghilterra, una lunga tradizione di forte Stato nazionale. La frammentazione politica e la presenza di piccoli regni e ducati hanno impedito, da noi, lo sviluppo di un’identità nazionale forte che potesse far nascere i movimenti rivoluzionari. Anche l’assenza di leader carismatici o rivoluzionari ha avuto il suo peso. Il Sud non ha mai prodotto figure di questo genere, paragonabili a Robespierre, a Lenin o a Cromwell, capaci di mobilitare le masse e guidare una rivoluzione. Se a queste congenite “debolezze”, in particolare del Sud, ne aggiungiamo altre, ecco che il ragionamento diventa più comprensibile.
La ruralità e la dispersione della popolazione, la povertà diffusa, la cultura familista e clientelare – che ha ostacolato lo sviluppo di una coscienza rivoluzionaria collettiva e di una solidarietà di classe – hanno sempre contrastato il progresso economico e civile. Aggiungiamo poi, per onestà intellettuale, l’influenza della Chiesa Cattolica che, nella stragrande maggioranza dei casi, ha sempre scoraggiato qualsiasi forma di ribellione contro l’ordine costituito.
Tutto ciò premesso, possiamo chiudere ora e per sempre questo capitolo sul perché delle mancate rivoluzioni nel Mezzogiorno? Un momento! Io non sarei così categorico nel considerarlo concluso. E sapete perché? In Italia, questo Referendum sull’Autonomia differenziata potrebbe rappresentare, soprattutto per il Sud, un’occasione storica per una rivoluzione civile, per un’inversione di tendenza. Ma soprattutto per una presa di coscienza e un ’assunzione di responsabilità. Ambedue rivolte a tutti quelli che non vogliono rassegnarsi alla marginalità e all’irrilevanza politica, economica e sociale di tutto il nostro Mezzogiorno.
Sarà pur vero che il Sud è più povero e arretrato del Nord, ma in quanto a coscienza critica e consapevolezza collettiva ha fatto passi da giganti. Certo, nel Circo Barnum della politica non mancano, anche da noi, i capipopolo improvvisati e i pifferai che prima incantano e poi maledicono le masse; gli acchiappanuvole e gli svalvolati che pretendono, come direbbe qualcuno, di asciugare gli scogli o di smacchaire i giaguari. Però, già dalla raccolta delle firme, si stanno notando, anche al Sud, fenomeni nuovi e inaspettati. Una più intensa partecipazione al dibattito pubblico. La consapevolezza che, questa volta, il proprio voto non sarà, come succede sempre più spesso, solo una goccia nell’Oceano.
Nell’Ottocento erano i settentrionali a voler unificare l’Italia. Ora, nel terzo millennio, sono i meridionali ad opporsi alla sua disintegrazione. Per essere efficace e raggiungere il suo obiettivo, la campagna per il Si dovrà concentrarsi su pochi ma decisivi argomenti.
Iniziamo col sottolineare che questa legge potrebbe provocare un ulteriore indebolimento del ruolo dello Stato centrale nella gestione equa delle risorse e dei servizi. La preoccupazione è che le regioni più ricche, come Lombardia e Veneto, possano utilizzare questa autonomia per trattenere una maggiore quota di risorse finanziarie sul proprio territorio, lasciando le regioni meridionali con meno fondi e potere contrattuale. Questo potrebbe portare a un accrescimento delle disuguaglianze territoriali e un indebolimento della coesione nazionale.
Per quanto riguarda l’economia, i meridionali temono giustamente che l’autonomia differenziata possa accentuare il divario già esistente tra Nord e Sud. Le regioni del Nord, avendo maggiori risorse e un tessuto industriale più robusto, potrebbero beneficiare di quest’ autonomia per migliorare ulteriormente le proprie infrastrutture e i servizi, attirando investimenti e soprattutto nuovi talenti.
Sul fronte sociale, questa legge potrebbe provocare un aumento delle tensioni tra le diverse aree del Paese. I cittadini del Sud potrebbero sentirsi ulteriormente emarginati e abbandonati dallo Stato centrale, aumentando il senso d’ingiustizia e disaffezione nei confronti delle istituzioni. Ne scaturirebbe un clima di scontento e frammentazione sociale, con potenziali ripercussioni sulla stabilità del tessuto civile del mezzogiorno.
C’è anche, inutile nasconderlo, un’altra corrente di pensiero che sostiene la validità e, in prospettiva, l’efficacia di questa legge. È indubbio che una maggiore autonomia possa portare efficienza nella gestione delle risorse locali e rispondere meglio alle specifiche esigenze delle singole regioni. Tuttavia, è altrettanto importante garantire che questa autonomia non si traduca in una disparità ancora maggiore tra Nord e Sud.
Una delle argomentazioni a favore del Referendum è che potrebbe stimolare i cittadini del Sud a scegliere con maggiore attenzione la propria classe dirigente, con un focus su competenza, responsabilità e buon governo.
Ma accanto alle speranze, vi è pur sempre il timore che questa legge possa minare l’unità dell’Italia, accentuare le divisioni regionali e compromettere il senso condiviso di una comunità nazionale . Questo ciclo storico che stiamo attraversando richiede molta lucidità e una grande visione per il futuro. Siamo chiamati a costruire l’Europa e non a sfasciare gli Stati. La Spagna e la Catalogna dovrebbero insegnarci qualcosa. Prima si chiede un’ampia autonomia. Poi, se non si riesce più a governare gli eventi, accade l’imprevedibile.
Ecco perché dobbiamo stare molto attenti a giocherellare con questi rigurgiti della Storia. Il nostro passato, quello violento e fratricida, dovremmo ricordarlo non più con un rimpianto, ma solo come un’amara e dolorosa terra straniera.
Michele Rutigliano