Da chi si difendono i confini se non dal nemico? E il nemico, essendo colui che ti minaccia, nell’accezione comune – a meno di essere così profondamente evangelici da giungere ad amarlo; cosa che non sembra sia, nel nostro caso – non è forse qualcuno che vien naturale e legittimo, perfino doveroso detestare?
Del resto, “difendere i confini” non rinvia nel sentimento comune, ad una qualche forma di “belligeranza”, sostanzialmente ad una guerra? E una guerra non prevede forse soldati in armi, nella trincea più avanzata, ma anche la costruzione di un fronte interno?
Le parole sono come un sasso che, una volta lanciato dalla mano, non si sa se, dove e come possa ferire, a prescindere dall’ intenzionalità di chi lo ha scagliato.
“Difendere i confini” è un’affermazione che merita una di quelle pernacchie di cui solo Eduardo sapeva fare un’arte.
Oppure una sonora risata o un sorriso compassionevole. Ma come il seme buono della parabola evangelica, anche quello cattivo può cadere in un suolo fertile attecchire, dare frutto e moltiplicarsi senza misura. Può attecchire laddove genera una gomma di sentimenti che dalla diffidenza, al sospetto, all’avversione, al disprezzo, al rancore e così via, in una sorta di crescendo rosdiniano, approdano francamente all’odio. E questo può avvenire, in un certo senso, passivamente, per una sorta di osmosi
con l’ambiente; quasi inavvertitamente, secondo una forma parassitaria o addirittura simbiotica, tale per cui l’odio pervade sottilmente l’anima, la nutre e l’alimentato.
L’dio è un sentimento perverso e pericoloso perché tra tutti è forse il più pervasivo e meno soggetto ad una analisi autocritica e razionale. È , nel senso etimologicamente proprio del termine, letteralmente “dia-bolico”, cioè, per sua natura, divisivo. Taglia in due l’anima del soggetto che lo ospita e funziona come una ubriacatura in cui, al momento esaltante della prima euforia, succede – e forse occultamente già convive con il primo – il momento di una sorda amarezza.
Fortuna vuole che, in definitiva, per quanto questo sia lo schema, con Matteo Salvini la cosa avvenga in modo dilettantistico e, in definitiva, perfino inconsapevole, cosicché potremmo perfino concedere la buona fede. Ma lo schema è lo stesso che, in altre epoche, in altri contesti, ha reso possibili pogrom spaventosi.
Purtroppo, inquinare l’animo di un popolo è meno difficile di quanto comunemente si pensi e, di solito, il processo prende il via da una mistificazione trasformata in parola d’ordine.
La Lega, ancora una volta, sul “pratone”
bergamasco di Pontida, ha rievocato. il mito di Alberto da Giussano, ma soprattutto la propria cifra originaria, lo spirito della fondazione che è pur sempre di stampo secessionista. Edulcorato, apparentemente meno puntuto, camuffato in forme più rotonde, più adatte all’evolvere del tempo, il sentimento secessionista continua ad essere la radice che alimenta la Lega. Insomma, disfare l’Italia, altro che costruire l’Europa. E non c’è da sorprendersi.
Le culture politiche – ed ovviamente anche la Lega, come ogni altra forza, ha la sua – hanno, se le si considera attentamente, un fondamento “antropologico”, anche quando non lo mettono scientemente a tema e neppure lo sanno o, comunque, non se ne curano. Per questo sono radicate e persistono nel tempo ben più di quanto non ammettano i cultori del “nuovismo” a tutti i costi.
Possono essere inedite le forme, ma poco o nulla cambia nella sostanza. È lo stesso motivo per cui è una sorta di vaniloquio adottare una categoria che non esiste e discutere di “ex”, di qualunque appartenenza fossero, quando ci si riferisce a coloro che sono nati e cresciuti nel solco delle culture politiche che si sono storicamente consolidate fin dai tempi della “Prima repubblica”, a loro volta tributarie di ascendenze più antiche.
Eppure, l’aspirazione secessionista, come lo stesso sovranismo – movimento non a caso paradossalmente “transnazionale”, pur nelle forme marcatamente localiste che gli appartengono – rappresentano fenomeni che non basta stigmatizzare, ma vanno decrittati e compresi nel loro fondamento ultimo. È troppo spiccio sostenere che attesterebbero una vocazione egoistica, come se si potesse risolvere sul piano della declinazione morale o moralistica una postura che va, al contrario, analizzata meno banalmente. Cominciando, ad esempio, a chiederci se vi sia una relazione e quale tra il sorgere, non solo da noi, di tentazioni localistiche o di propensioni isolazioniste e quella differente percezione dello spazio e del tempo indotta dai fenomeni della globalizzazione.
Domenico Galbiati