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Diritto di cittadinanza tra umanità e realismo – di Andrea Griseri

Nel clima di contrapposizione schematica fra opzioni culturali, orientamenti politici e ideologici che caratterizza la nostra epoca, anche la grave questione migratoria rischia di essere ridotta a una discussione degna del proverbiale bar sport. Poche certezze incrollabili radicate in conglomerati emotivi simili a quelli che gonfiano di passione e furore le tifoserie radunate nelle curve degli stadi segnano le discussioni inerenti alle questioni più sensibili. Ma se gli epigoni dell’indimenticato Gianni Brera non possono prescindere dai sentimenti primitivi delle folle, il dibattito politico dovrebbe funzionare altrimenti. Perché il calcio, pur con la sua immensa portata metaforica, è null’altro che un gioco, la politica è pratica esistenziale.

Parliamo di quel fenomeno “epocale” di cui tanto si discute, le migrazioni dai Paesi svantaggiati o in via di sviluppo (o di mancato sviluppo) a quelli europei. Come è noto l’Italia per la sua posizione geografica costituisce una sorta di prima linea nel Mediterraneo ed è vincolata al rispetto del regolamento di Dublino. Molti richiedenti asilo entrati irregolarmente nel territorio europeo tramite la porta italiana spesso decidono volontariamente o forzosamente (è nota la disponibilità all’accoglienza dei francesi, lo dico con ironia e sarcasmo, che non mancano di bacchettarci per la nostra presunta mancanza di umanità) di fermarsi nel nostro Paese.

Fra i mille problemi che discendono da questo fenomeno “epocale” – ricordando sempre che il termine epocale non è sinonimo di ineluttabile o ingovernabile! – vorrei soffermarmi su quello riguardante l’acquisizione della cittadinanza da parte di chi è nato sul territorio nazionale da genitori stranieri in possesso di regolare permesso di soggiorno. Le parole ius soli e ius culturae rimbalzano da ogni parte, sono sguainate come una specie di arma impropria con opposte finalità sia da chi vorrebbe allargare il più possibile le maglie dell’accoglienza sia da chi le vorrebbe stringere. E i cittadini frastornati finiscono per capirne pochino.

Cominciamo col ricordare che il tanto invocato ius soli già esiste. Una persona nata in Italia da genitori stranieri che risieda sul territorio nazionale senza soluzione di continuità può richiedere la cittadinanza al compimento della maggiore età. La cittadinanza è il bene più prezioso che una comunità nazionale possegga. Ed è il proprietario di quel bene così intimo e identitario a dover decidere che cosa farne. La scelta è rivelativa del carattere e dell’attitudine morale di un popolo.

Immaginiamo tre diverse opzioni.

Si può ritenere che il “bene cittadinanza” non può e non deve essere condiviso salvo che in casi molto particolari. Una comunità che inclinasse verso una simile opzione si mostrerebbe animata da sentimenti di diffidenza e di paura verso tutti i soggetti “altri”. Il ripudio del diverso sortirebbe conseguenze anche sulle dinamiche interne: ciascuno inizierebbe a diffidare di quanti, pur membri della medesima comunità nazionale, non si riconoscono nel proprio gruppo sociale, culturale o politico di riferimento e si tenderebbe fatalmente a prediligere l’omologazione, il conformismo, il pensiero unico, la sottomissione acritica a un’autorità capace di farsi garante dell’uniformità; la società si chiuderebbe in se stessa, il pregiudizio la farebbe da padrone, le note dissonanti bandite in favore di una musica monotona e sempre uguale a se stessa; in un simile scenario la vittima illustre sarebbe la già peraltro malconcia democrazia e anche le dinamiche economiche ne soffrirebbero.

Esaminiamo la seconda opzione, definiamola quella del “liberi tutti”. La comunità nazionale sceglie di aprirsi agli stranieri senza preoccuparsi né del loro numero né delle loro caratteristiche. La parola d’ordine è inclusione. Gli stranieri sono in quanto tali percepiti come risorse poiché “ facciamo sempre meno figli e chi ci pagherà le pensioni” e “fanno i lavori che noi non vogliamo più fare”. Considerazioni che rimandano a un dato di fatto difficilmente contestabile ma piuttosto sbrigative. La porosità delle frontiere, la facilità degli accessi al territorio nazionale richiede di assicurare a tutte/i un adeguato livello di inclusione. Come? Il modo più immediato è proprio facilitare l’accesso alla cittadinanza; la sua acquisizione al compimento della maggiore età dopo essere nati e avere soggiornato ininterrottamente sul territorio italiano (nel caso in cui venisse meno tale requisito è possibile richiedere la cittadinanza comunque, a patto di dimostrare la propria presenza sul territorio nei tre anni precedenti il compimento della maggiore età prevista dalla Legge 91 del 1992) ai fautori della seconda opzione appare eccessivamente restrittiva. Ecco allora la fioritura di proposte che procedono in una direzione maggiormente libertaria.

Alcuni temerari vorrebbero accordare lo jus soli ab origine senza condizionalità, nasci sul sacro suolo italico e ne diventi immediatamente cittadino. Non se ne sente più parlare. Forse l’immagine di barconi carichi di signore incinte pronte a sgravarsi sulla battigia ha corrugato persino le fronti più globaliste.

Si parla piuttosto di ius scholae e ius culturae. Spesso si fa una certa confusione fra i due termini. Diciamo che lo ius culturae precede logicamente lo ius scholae che ne dovrebbe costituire l’attuazione operativa. L’acquisizione della cittadinanza secondo questa teoria non può ritenersi disgiunta da una sostanziale integrazione di natura culturale. I 18 anni di permanenza ininterrotta sul suolo nazionale previsti dalla normativa non solo appaiono esagerati ma non garantiscono di per sé che il nuovo cittadino sia animato da quell’insieme di valori e di conoscenze che dovrebbero caratterizzare i componenti delle nostre comunità. Dipende da che cosa ha fatto e imparato, come è stato educato durante questi anni. È necessario uno sforzo che lo impegni ad assimilare i tratti salienti della nostra cultura così da permettergli di divenire un membro attivo e consapevole della comunità che lo ha accolto. Senza lasciar cadere nell’oblio, auspicabilmente, la cultura dei suoi padri: il multiculturalismo lungi da essere un progetto criminale, come recitava uno slogan diffuso da un gruppuscolo di nostalgici alcuni anni fa, immette ossigeno nelle acque stagnanti delle culture nazionali adagiate su se stesse, è energia, sfida, apertura al futuro. Se la cultura è l’elemento centrale il requisito anagrafico, il raggiungimento della maggiore età, passa in secondo piano.

Ma come dare concretezza allo ius culturae? E come disciplinarlo? Quando viene il momento di riconoscere che le condizioni per potersi dire effettivamente cittadini sono state soddisfatte? Come misurarle?

La “cultura” si acquisisce principalmente attraverso la scuola. Eureka! Il futuro cittadino dovrà pertanto frequentare la scuola e su questa base potrà dimostrare di avere indossato l’abito culturale che tutti i cittadini dovrebbero rivestire: la misurazione della cultura e dei diritti che ne conseguono è di incerta determinazione ma se la cultura deriva direttamente dalla frequenza della scuola il meccanismo di certificazione diventa molto più semplice e immediato. Ius culturae e ius scholae non sono sinonimi ma strettamente interconnessi. Ma è qui che si dividono le strade dei fautori della seconda e della terza opzione. I primi, come abbiamo detto, mostrano un approccio molto aperto e cercano di facilitare il più possibile l’afflusso e l’inclusione dei nuovi arrivati. Sono insofferenti all’eccesso delle condizionalità. Tuttavia: siamo davvero sicuri che il completamento di un solo ciclo di studi sia sufficiente per assimilare i contenuti cognitivi ed emotivi che dovrebbero caratterizzare un cittadino italiano ed europeo? Non si rischia di ridurre questo passaggio delicato e decisivo a freddo adempimento burocratico?

Lungi da me riavviare il nastro delle solite lamentele contro la scuola pubblica dal momento che la maggioranza degli insegnanti è competente e straordinariamente animata da spirito di sacrificio. I problemi della scuola nascono da lontano: i reiterati tagli al bilancio (facile rimettere a posto i conti dello Stato facendo cassa a spese della scuola e della sanità), l’eccesso di adempimenti extradidattici richiesti dai funzionari del Ministero (gente che spesso non mette piede in un’aula da chissà quanti lustri), la svalorizzazione economica e sociale del corpo docente e la sua conseguente perdita di autorevolezza (da non confondersi con l’autoritarismo!). Non riusciamo a dare sostanza civile a tanti giovani italiani che sono tali sulla base dello ius sanguinis e presumiamo che il compimento di un solo ciclo di studi, i 5 anni di elementari per la precisione, possa magicamente trasformare un giovane straniero in un cittadino esemplare? Parrebbe che dietro questa superficialità burocratica si nasconda una sorta di noncuranza verso il valore del bene immateriale offerto, la cittadinanza appunto, e soprattutto verso i giovani stranieri i quali meriterebbero un percorso di inclusione altrimenti articolato e profondo. Queste sono le obiezioni che di primo acchito balenano nella mente di chi inclina per la terza opzione fondata su alcuni principi basilari: l’Italia non può che trarre vantaggio dalla presenza di cittadini portatori di energie fresche, giovani e di culture “altre” pronte a confrontarsi con la nostra in un rapporto dialettico vitale e aperto a sintesi nuove e inedite. Ma questo processo di (reciproca) inculturazione deve essere governato con attenzione costante, autorevolezza e metodo nel rispetto delle tempistiche necessarie. Soltanto così potranno sortirne effetti positivi: curiosità reciproca, rispetto, nessuna diffidenza (l’anticamera del razzismo), in una parola vera integrazione.

Non è questa la sede per avventurarsi in ardite riflessioni sul dibattito del momento: che cosa è l’Occidente? È avviato sulla via del tramonto (a parte l’ovvia constatazione che il sole scompare in direzione dell’occidente, occasus e cioè tramonto)? Cardini ha recentemente dato alle stampe un testo dal titolo palesemente spengleriano, La deriva dell’occidente, in cui tenta di esaminare la questione da storico che si confronta con i documenti riconducendo su un terreno fattuale le più evanescenti riflessioni di antropologi e filosofi. Qui ci limitiamo a ricordare che le nostre società europee sono certamente tenute insieme da un collante di valori di matrice giudaico-cristiana, liberale, socialdemocratica; un apparato valoriale animato da una dialettica interna, da similitudini e da importanti antinomie (dottrina sociale cattolica vs. socialismo di ispirazione marxista, popolarismo vs. liberalismo, enfasi sui diritti sociali vs. diritti civili). Questa sfaccettata identità occidentale – ed europea in primis – non è finora implosa su se stessa perché queste diverse anime aderiscono non solo a un progetto comune ma soprattutto a quelle procedure che regolano la loro relazioni: e cioè la democrazia, che secondo la famosa definizione di Bobbio è innanzitutto un apparato procedurale che tutti gli attori s’impegnano a rispettare.

Gli immigrati sono latori di sensibilità diverse che certamente arricchiranno come si è detto il nostro panorama culturale: ma senza rinunciarvi dobbiamo chiedere loro non solo di rispettare ma di fare proprio il nostro corpus valoriale. Che in taluni Paesi europei, in genere ex Paesi coloniali usciti vincitori dall’ultimo conflitto mondiale, a forte immigrazione, si siano create robuste enclaves islamiche intenzionate a rispettare la Sharia più che le leggi del Paese ospitante desta preoccupazione. Oriana Fallaci con la consueta vis polemica ma documenti alla mano aveva lanciato l’allarme ne La forza della ragione del 2004: vi è chi nel mondo islamico intenderebbe le comunità chiuse presenti sul territorio europeo come avamposti per una conquista non manu militari del vecchio continente; “li conquisteremo col ventre delle nostre donne” aveva esclamato Boumedienne nel lontano 1974, e nel 2017 Erdogan esortava le donne turche a partorire non tre ma almeno cinque volte per ripopolare e sottomettere la sterile Europa. Se queste sono le premesse ci attende un futuro fosco fatto non di inclusione e di reciproco rispetto ma di conflitti: reciproco razzismo, insicurezza generale. Quella islamica non è di per sé una cultura religiosa ermeneutica a parte l’importante eccezione di raffinati ambienti accademici di ispirazione Sufi. Secondo le scuole rigoriste hanbalite (da ibn Hanbal, 780-855) la parola è data e non richiede particolari interpretazioni, Dio ha, infatti, donato all’uomo in primo luogo l’udito (Corano XVI 78). E’ proprio questa predicazione semplice che non richiede particolari sforzi interpretativi a prevalere oggi fra le masse mussulmane e fra gli immigrati, veicolata da Imam di ispirazione salafita o wahabita. E lì si annida il germe della refrattarietà ai valori che per comodità definiamo genericamente occidentali. Lì si trova il terreno di coltura dell’estremismo che tanto ci spaventa (cfr. “Jihadismo punto e a capo” da Limes 10/2023 di Mario Giro). Che gli immigrati identifichino poi nelle comunità di consanguinei, connazionali e correligionari il principale polo di attrazione una volta giunti nei paesi europei è naturale; ma perché questa dinamica non si traduca in chiusura e autoreferenzialità è indispensabile adottare politiche di inclusione lungimiranti: dare sostanza allo jus culturae appunto, attraverso lo strumento principe della scuola, ma nel rispetto delle giuste tempistiche e senza scorciatoie burocratiche. Ovviamente solo una percentuale di immigrati è di religione islamica (vi sono fra loro anche molti cristiani) ma è nei loro riguardi che il dialogo deve essere al tempo stesso rispettoso e attento.

Aggiungo un’ultima considerazione. È accettabile che i migranti approdino sulle coste europee (Lampedusa è Europa anche se i partner nordici spesso se ne dimenticano) dopo un viaggio pericoloso affrontato su imbarcazioni di fortuna? Evidentemente no. E allora esiste un’unica soluzione a questo scandalo, il corridoio umanitario. Dobbiamo essere noi europei a organizzare in condizioni di sicurezza il viaggio della speranza. Siamo vecchi e infecondi, abbiamo bisogno o no di sangue fresco?

Ma c’è un corollario che spesso si tende a ignorare: il corridoio umanitario non può soddisfare tutte le numerosissime persone che intendono cercare fortuna nel vecchio continente. Funziona ma a patto di rispettare rigorosamente un preciso coefficiente numerico che corrisponde al numero di persone che si possono realisticamente includere in un autentico percorso di integrazione culturale (perche lo ius culturae non dovrebbe riguardare solamente i nuovi nati!) e di inserimento lavorativo. Coefficiente che può assumere una valenza non solo quantitativa ma anche qualitativa dal momento che il corridoio umanitario si attiva operativamente nei luoghi di partenza e i funzionari dei Paesi di approdo possono valutare quali fra gli aspiranti posseggano quelle caratteristiche che lasciano prevedere un esito felice del futuro iter di integrazione.

Predisporre corridoi umanitari efficaci significa quindi rapportare la quantità di permessi alla capienza di un sistema inclusivo di lungo periodo che non deve essere confuso con la mera accoglienza immediatamente successiva allo sbarco; e significa inibire le traversate in mare con mezzi di fortuna e scoraggiare le partenze. Questi sono i corollari, sgradevoli certo, ma inevitabili di una politica migratoria civile e sostenibile grazie alla quale le persone – alcune non tutte! – potranno raggiungere la destinazione desiderata con un comodo volo charter anziché su una precaria bagnarola essendo già conosciute dalle autorità del Paese d’ingresso e munite dei necessari documenti.

Il modello migratorio a cui abbiamo assistito finora appare una sorta di mostruosa manifestazione di quel liberismo selvaggio che ieri seminava disordine creativo nello scambio di merci e nei mercati finanziari (Thriving on Chaos/Prosperare sul Chaos è il significativo titolo di un best seller pubblicato nel 1988 dal guru del management Tom Peters) oggi affonda l’artiglio nella carne viva delle persone povere e dei popoli: vi sarà chi ne trarrà profitto ma non certo la middle class europea né i figli dei “popoli della fame” che continueranno a interpellarci invano.

Andrea Griseri

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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