“Lettera a una professoressa”, uscita un mese dopo la morte di don Milani, avvenuta il 26 giugno 1967, attraversò come un lampo accecante il cammino culturale e professionale di una generazione che stava entrando in quegli anni nel sistema scolastico. Il quale stava attraversando la sua trasformazione più profonda dal tempo di Giovanni Gentile, la cui riforma del sistema di istruzione è stata realizzata principalmente proprio nello stesso anno della nascita di Don Milani.
La Scuola media unificata aveva incominciato da tre anni a rovesciare negli Istituti di istruzione secondaria masse di ragazzi, come mai prima. Non c’era più l’esame di ammissione/mannaia e, soprattutto, la Scuola media era diventata obbligatoria.
Ai lettori di quella “Lettera” l’istituzione scolastica apparve come “una scuola di classe” – la scuola dei pochi e dei privilegiati – e gli insegnanti come “custodi di un lucignolo spento”. La Lettera suonò come il grido degli esclusi e degli oppressi. La denuncia era scritta in stile aforismatico, definitivo, sentenzioso-profetico. Era scritta all’indicativo.
Molte espressioni hanno lasciato un segno nel linguaggio delle generazioni successive: “La scuola è per tutti solo se è per ciascuno… la scuola è un ospedale che cura i sani e respinge i malati… gli insegnanti sono i custodi di un lucignolo spento… la Cultura che occorre: la cultura contadina…non vi è nulla di più ingiusto che fare parti uguali tra diseguali… tutti i ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, la colpa è vostra… io sono un ragazzo influenzato dal maestro. E me ne vanto. Se ne vanta anche lui. Sennò la scuola in cosa consiste?… Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia… la parola è la chiave fatata che apre ogni porta: chiamo uomo chi è padrone della sua lingua…
La “Lettera” faceva tre proposte di “riforma”: 1. non bocciare; 2. a quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno; 3. agli svogliati dargli uno scopo: il fine giusto è dedicarsi al prossimo.
Rivolgendosi ai futuri insegnanti, don Milani intimava di scegliere tra due tipi di scuola, non senza conseguenze per la propria vita: o la Scuola di servizio sociale – senza voti, senza registro, senza gioco, senza vacanze, senza debolezze verso il matrimonio o la carriera – o Scuola di servizio dell’Io.
Questo, dunque, il messaggio di don Milani.
Occorre constatare che tanto il ’68 quanto il cattolicesimo del dissenso quanto settori del movimento cattolico-democratico, soprattutto di matrice dossettiana, ne hanno fatto un uso politico-ideologico assai disinvolto. Donde “l’equivoco don Milani”, al quale Adolfo Scotto di Luzio ha dedicato un libro recente, storiograficamente rigoroso.
Quali i punti di equivoco?
Il primo: Don Milani non aveva in mente nessuna architettura del sistema di istruzione alternativa a quella gentiliana, che è tuttora quella esistente. Don Milani voleva dare ai propri parrocchiani – operai, contadini, boscaioli – i mezzi culturali per comprendere la Parola e per stare a galla in una società che stava passando dall’economia agraria e pre-borghese a quella industriale, borghese, consumistica.
Le due finalità erano visibilmente intrecciate. La scristianizzazione camminava sulle gambe della nuova società industriale. La ciambella di salvataggio consisteva nel dare la parola alla “cultura contadina” contrapposta alla cultura borghese.
La scuola di Barbiana serviva a questo. In quegli stessi anni al Liceo Berchet di Milano, dove aveva studiato lo stesso don Milani, un altro prete, don Luigi Giussani seguiva, mosso dalle medesime preoccupazioni, una strategia del tutto opposta: valorizzare la grande cultura “borghese” per reimpiantare tra i giovani milanesi il Cristianesimo che si stava perdendo.
In alcune frange del ’68, il rifiuto della cultura borghese si trasformò nella teorizzazione del rifiuto dei libri, dello studio, degli esami, fino ad alcuni corollari opportunistici quali gli esami di gruppo e il 18 politico.
Il secondo riguarda il tema della personalizzazione/eguaglianza:
L’eguaglianza consiste nel fatto che ciascuno sia messo nelle condizioni di sviluppare i propri talenti. In quegli anni il discorso personalista era minoritario, nonostante la battaglia dell’attivismo cattolico-personalista e gli scritti e la pratica di Elena Giannini Belotti e di Mario Lodi.
Ma la personalizzazione di Don Milani non c’entrava molto né con Dewey né con il personalismo cattolico. Paradossalmente, era più vicino a Giovanni Gentile, perché schiacciava la relazione educativa sull’identificazione con il Maestro, cioè con sé stesso. La personalizzazione consiste nell’impersonare il Maestro: “… io sono un ragazzo influenzato dal maestro. E me ne vanto. Se ne vanta anche lui. Sennò la scuola in cosa consiste?”.
Tuttavia, se è stato possibile fare un uso spregiudicato del messaggio di don Milani, è perché prestava dei lati disponibili a quell’uso.
Il primo era la teoria dell’esistenza di un Piano della Borghesia o del Capitale, che ha ancora fortuna nella sinistra dei nostri giorni: se la scuola ha un carattere ferocemente selettivo, non accade per caso. Negare che esista un tale piano, è scritto nella Lettera, “è come sostenere che tante rotelle si sono messe insieme per caso e ne è venuto fuori un carro armato”. Che sia questo il fondamento dell’elogio di Piero Sansonetti, per il quale don Milani “ha saputo coniugare religione e lotta di classe”?
Il secondo: l’invettiva contro la professoressa, ottusa vestale del potere borghese, e contro la sua scuola come “guerra contro i poveri”, andava a saldarsi con la denuncia di Althusser della scuola come “apparato ideologico di Stato” e con i discorsi di Michel Foucault sulla violenza delle istituzioni in quanto tali, tra cui, appunto, la scuola. Le variazioni su questo tema sono state infinite.
Inevitabile la domanda: che cosa resta di Don Milani? Barbiana si è sciolta nell’ottobre del ‘68. La scuola gentiliana, dopo la grande riforma del 1963, non ha visto grandi riforme. Il principio di personalizzazione non ha fatto grandi passi. Anche perché non è possibile personalizzare la didattica e i percorsi in un sistema che organizza le classi in base all’anno di nascita e non in base ai talenti e ai livelli di ingresso.
Servirebbero dei tutor che costruissero e monitorassero il piano di studi personale del ragazzo e il suo percorso; delle cattedre, cui andare ad attingere i saperi in base; degli istituti capaci di verificare/certificare i livelli effettivi di acquisizione dei saperi, senza il facile alibi del valore legale del titolo di studio.
L’attuale assetto istituzionale e di governance della scuola non lo permette la personalizzazione, semplicemente. Questo sistema viene accanitamente difeso dai sindacati degli insegnanti, dall’Amministrazione scolastica, dalle forze politiche. Ne consegue che troppe commemorazioni di don Milani sono semplicemente ipocrite.
Il suo messaggio contro la selezione si è trasformato in un egualitarismo burocratico al ribasso, in nome dell’inclusione: mentre si proclama di voler includere gli ultimi, si costringono i penultimi, gli intermedi, i plus-dotati ad una noia infinita, alla fuga, alla dispersione.
Sì, il roveto ardente di don Milani, continua a bruciare, senza consumarsi. Ma, per ora, le sue scintille non hanno dato fuoco a nessuna prateria. Ed è questo l’esame di coscienza e il rovello che questo pellegrino dell’Assoluto ci lascia.
Giovanni Cominelli