“Non si può sfuggire alle sfide della storia ed alle relative responsabilità”. La visione che il Presidente Mattarella ha consegnato al Parlamento e, suo tramite, agli italiani, si colloca all’incrocio tra la necessità dettata dal momento storico ed il compito della politica. In un tempo di sfide. Cioè ad un crocevia da cui possono diramarsi percorsi differenti e, quindi, prospettive diverse, differenti destini per l’umanità.
Destini, sviluppi, evoluzioni che la responsabilità della politica deve avocare al suo potere. Viviamo una stagione in cui è in gioco la stessa democrazia: “La sfida – che si presenta a livello mondiale – per la salvaguardia della democrazia riguarda tutti e anzitutto le istituzioni”. Infatti, afferma il Presidente: “Poteri economici sovranazionali tendono a prevalere ed imporsi, aggirando il processo democratico” e, del resto, “Proprio la velocità dei cambiamenti, richiama, ancora una volta, il costante inveramento della democrazia”. “Occorre evitare che i problemi trovino soluzione senza l’intervento delle istituzioni a tutela dell’interesse generale. Questa eventualità si traduce sempre a vantaggio di chi è in condizione di maggior forza”.
Contro ogni suggestione “ semipresidenzialista”, in nome di una puntuale separazione dei poteri, senza sconti al Governo e senza cedimenti al mito “decisionista”, riaffermando puntigliosamente la centralità del Parlamento, lo “spazio delle autonomie”, il pluralismo delle istituzioni, nella consapevolezza che la democrazia esige una ponderazione temporale che le autocrazie ignorano, richiamando alla nostra coscienza come l’Italia sia un “grande Paese”, il Presidente della Repubblica traccia la via sicura per quella democrazia del tempo post-moderno, che per quanto debba, appunto, “inverarsi” in forme nuove, secondo versanti espressivi inediti e da esplorare, è pur sempre radicata in un ordinamento democratico, retto da istituzioni in cui, secondo le regole della rappresentanza, si attesta la sovranità popolare. Non si ottiene la governabilità, tanto meno in una società “aperta”, addomesticando ad arte la rappresentanza.
Al contrario, la governabilità è possibile ed efficace, magari meno “tranchant”, meno eclatante nella percezione immediata, ma più solida e più sicura se fondata su una limpida rappresentanza, a sua volta presupposto di una condivisione che assuma come propri, anziché subirli a dispetto, gli indirizzi che gli organi di governo trasmettono al Paese. Nel momento del loro più stridente discredito maturato nella pubblica opinione, il Presidente non teme e non dimentica di richiamare il ruolo inderogabile delle forze politiche.
Abbiamo bisogno di “partiti coinvolgenti”, perché ogni cittadino, afferma il Presidente: “Deve poter fare affidamento sulla politica come modalità civile per poter esprimere le proprie idee….”. In un Paese in cui: “La cultura non è il superfluo: è un elemento costitutivo dell’identità italiana….”. Grazie al Presidente Mattarella, l’ Italia respira.
La “Seconda repubblica” nacque – è bene non scordarlo – nel segno di una supposta “rivoluzione liberale”, in effetti soffocata nella culla dalla contestuale esibizione dell’ antipolitica, addirittura vantando fastidio nei confronti dei tempi e delle procedure parlamentari, avvertite come riti superati ed inconcludenti. E’ nata nel segno del separatismo, del “nazionalismo” padano e della pretesa rottura dell’Italia in due tronconi, dell’avventurismo leghista e della presunzione di poter rovesciare a ritroso la storia del Paese. E’ nata nel segno di una innaturale alleanza tra questi indirizzi ed una destra da un lato di impronta statalista, dall’altra espressione degli epigoni del “nazionalismo”
d’antan. Di ascendenza missina e parafascista, per quanto sia corsa a passare le acque a Fiuggi.
La demagogia, il populismo sovranista, il nazional-populismo retrivo di cui è oggi intrisa la destra, la rivendicazione sistematica degli interessi particolari – è necessario non dimenticarlo – sono semi messi a dimora fin da quegli anni.
Ora quella stagione è finita, anzi è fallita.
Così il Pd, sull’altro fronte. Del tutto incapace di concepire una cultura alternativa. Smarrito nella palingenesi “ulivista”. Immerso in una “vocazione maggioritaria”. Gonfio di presunzione. Vuoto di idee, a meno di prendere a prestito dal mondo radicale la cultura di un individualismo crudo e cieco, che fa a pugni con la vocazione popolare delle culture da cui avrebbe dovuto essere espressa un’anima che nessuno ha mai visto.
Evitiamo, insomma, che un Paese che merita di rinascere sia ancora ghermito dal “rigor mortis” di una stagione ingloriosamente giunta al capolinea.
Domenico Galbiati