Un articolo sul Financial Times trasforma clamorosamente quello che aveva tutte le sembianze di un tentativo di operazione di palazzo (non nuovo nella storia patria) in un dato politico che merita di essere esaminato con grande attenzione.

Mi scuso in anticipo per il fatto di tralasciare per un attimo il tema umanitario (che pure ha oggi la assoluta preminenza nelle preoccupazioni di ognuno). Ma se vogliamo sviluppare una riflessione sugli aspetti politici, occorrerà – in un certo senso e solo per un attimo – “isolarsi” dal resto.

Proviamo dunque a mettere in fila gli elementi che forse ci consentono, non solo di interpretare gli avvenimenti in corso, ma – molto di più – di elaborare collettivamente anche una posizione politica.

L’antefatto

Sin dai giorni del paziente 1 a Codogno era possibile prevedere – almeno come ipotesi – il rischio che si formasse una valanga (rischio cinese) che si sarebbe abbattuta sull’Italia, senza trovare argine sufficiente nelle istituzioni di governo.

Già allora, infatti, c’erano elementi evidenti che denunciavano uno iato troppo ampio fra gli eventi (o i rischi) in atto e una periclitante formazione di governo (il Conte bis). Scarsa la coesione interna della maggioranza, scarso il consenso nel Paese, bassissimo il livello di interlocuzione con l’opposizione, date le circostanze traumatiche in cui il nuovo governo era nato. Infine, crisi profonda (di strategia, oltre che di uomini) non di una delle forze di maggioranza, ma della principale. Altrettanto incerta la credibilità e l’autorevolezza internazionale della nuova compagine di governo, prostrata dai perduranti dinieghi dell’asse franco-tedesco in tema di flessibilità di bilancio e dalle scomposte (quanto perduranti) operazioni aperturiste di Di Maio all’autocrazia di Pechino.

Appena definitasi la virulenza e la drammaticità dell’epidemia – e siamo alla fine della prima decade di marzo – ci furono tutti gli elementi per immaginare che la valanga (a parte i contraccolpi sociali e i rischi per la tenuta del sistema sanitario) si sarebbe presto rivelata un rischio mortale per l’economia italiana, richiedendo misure di carattere non ordinario che coinvolgessero – necessariamente – parti sociali e opposizioni. Lo stesso Presidente del Consiglio, per il suo curriculum e per le circostanze della nascita del Conte bis, rivelava la sua inadeguatezza a gestire una situazione del genere, se non altro per i pessimi rapporti conl’opposizione. Con la “flessibilità” come caratteristica personale si può molto – nella vita – ma non tutto.

Infine, chiunque realizzasse questi rischi – e non furono pochi, come dimostrano gli stessi contributi pubblicati sul nostro modesto sito web – pensò sin da allora che la nuova situazione avrebbe fatto balzare in primo piano il tema dell’Unione europea. Terreno su cui – ancora una volta – la compagine di governo esprimeva una grande difficoltà, sia in termini di rappresentatività e autorevolezza di uomini, sia di compattezza fra approcci divaricati conviventi nella stessa maggioranza (europeismo tecnocratico ed ontologicamente subalterno di Gualtieri e pulsioni euro-opportuniste dello zoccolo duro dell’ala ministeriale dei 5 Stelle).

Il punto politico

È necessario ora identificare – con il massimo possibile di lucidità – il punto politico che segna l’attuale fase. Che a mio parere è il seguente: la convinzione, da parte dell’attuale governo di fare della propria fragilità la propria assicurazione sulla vita.

A ben guardare, su questa convinzione si è basata tutta la breve vita del Conte bis fino alla parte finale del mese di febbraio. E la cosa sembrava funzionare!

Man mano che il contagio epidemico si manifestava nella sua drammaticità il pensiero politico che ha retto l’azione di governo (e la parallela azione del Quirinale) è consistito semplicemente nell’inglobamento della stessa epidemia in questo schema di pensiero: stabilizzazione del debole quadro politico attraverso l’emergenza.

I punti deboli

In questo schema c’è però più di un punto debole:

  1. il tema delle competenze: l’emergenza non esige capacità retoriche, ma grande mobilitazione di competenze reali. Questo governo ha un grandissimo problema di competenze. Nasce addirittura da una teorizzazione della assenza di competenze (e gli effetti si vedono). Ricordate il confronto gnoseologico Castelli-Padoan? Bene, Padoan non sappiamo dov’è, la Castelli è invece ancora nel È vero che qui il Governo può fare affidamento sul fatto che anche l’opposizione ha lo stesso punto debole. Ma – attenzione! – l’opposizione, non il Paese. Nel Paese ci sono competenze ben superiori a quelle che questo Governo riesce oggi a mobilitare. E purtroppo i risultati si vedono nelle scelte – per lo meno problematiche – di gestione della crisi (che ormai per la loro varietà e il loro numero meritano di essere affrontate in una sede specifica). Purtroppo l’analisi ex post ci dirà che l’epidemia – come ci ricordava il prof. Sacco su questa stessa testa – è innanzitutto una catastrofe organizzativa e sarà difficile non collegarla anche alla debolezza della classe di governo.
  2. Il tema geopolitico: non si è capito in tempo (non si è in grado di valutare) quali contraccolpi la crisi sta producendo sul piano internazionale. Anche qui è fin troppo facile la battuta: un Governo che esprime un Ministro degli esteri come il nostro (un volenteroso apprendista, ad essere generosi) che percezione può avere del gigantesco riassetto degli equilibri internazionali indotto dalla pandemia sul quale si stanno rapidamente muovendo tutte le pedine in gioco? Un riassetto che riguarderà inevitabilmente la presenza di attori globali come gli Stati Uniti e la Cina popolare sul quadrante europeo, rispetto alla quale la politica estera italiana non potrà permettersi né tentennamenti né “giri di valzer”, come quelli ai quali abbiamo dovuto assistere sotto i due ultimi governi a guida populista. Che percezione può avere dei rischi, ma anche delle opportunità? Anche qui, lo stato dell’opposizione ha funzionato da autoinganno: il fatto che un governo gialloverde avrebbe incontrato le medesime difficoltà non leva nulla al fatto che questo sia un grave vulnus, in un momento come questo. Il giornalista collettivo nazionale – con i noti luoghi comuni – forse non basta più di fronte alla prospettiva di una recessione di tipo bellico gestita da Conte e da Casalino via dirette su Facebook.

Ora Conte – e poi Gualtieri, e poi di nuovo Conte, e poi Conte, Gualtieri e Di Maio, ecc. – si apprestano ad andare e venire da Bruxelles. A fare che? A giocare sempre la stessa parte (da anni e anni ormai è sempre lo stesso film): chiedere all’Unione europea. Cosa? Quello che l’Unione europea (ammesso che esista questa UE) non può dare finché sarà paralizzata dai veti ordo-liberisti dei paesi nordici? Qui, o si cambia tutto il gioco o l’Italia è perduta. Questa consapevolezza comincia a farsi strada.

L’ipotesi Draghi

Ora, forse, abbiamo qualche elemento in più per interpretare l’”ipotesi Draghi”. Questa ipotesi ha dalla sua una serie di elementi oggettivi. L’articolo del FT ne mette – a mio parere – in evidenza uno in particolare: il senso del tempo che Draghi dimostra, in modo impressionante. L’enfasi sull’urgenza che nasce dalla combinazione di conoscenza delle dinamiche dell’economia reale, della storia economica e finanziaria, dei meccanismi di funzionamento dei mercati e delle istituzioni internazionali, delle sedi decisionali, se non della psicologia di chi vi siede. Senza questo bagaglio non si può stare su quei tavoli in questi momenti (temo) senza fare vere e proprie figuracce.

Ma un secondo aspetto – di enorme rilievo – che quell’articolo evidenzia ha un significato che trascende ogni valutazione di carattere soggettivo: siamo arrivati in pochi giorni alla fine del modello neoliberista (o neoclassico). Già Trump – con la decisione di 72 ore fa – deve farci riflettere, come giustamente su questo sito Giancarlo Infante ha prontamente osservato ( CLICCA QUI )

Questo cambia tutto nell’economia, nella politica, nelle relazioni internazionali.

Il tema non è – dunque – “Draghi”, ma piuttosto “Draghi per fare quale politica nel prossimo semestre/anno che cambierà il nostro mondo di riferimento?”.

Che fare?

E siamo alla domanda finale. E’ difficile capire cosa accadrà nei prossimi giorni (o settimane). Può accadere di tutto.  Faccio tre ipotesi:

  1. Il discorso Draghi acquista forza autonoma, nel vuoto di una intelligente azione politica da parte delle forze che rappresentano la democrazia italiana. Sappiamo che Draghi ha “forza propria”. Ne siamo ben consapevoli. Una forza con ramificazioni internazionali rilevanti. Non sarebbe la prima volta che la politica italiana trova arbitri esterni, diciamo soluzioni “extra o sovra-democratiche”. È un’ipotesi che non mi affascina minimamente perché svuoterebbe ulteriormente la democrazia italiana e, contestualmente, indebolirebbe la sua credibilità internazionale, così come è accaduto con le soluzioni “tecniche” sperimentate dal novembre 2011 in poi.
  2. Il discorso Draghi procede in convergenza con una ripresa d’iniziativa delle forze democratiche (partiti, pezzi di partiti, settori dell’opinione pubblica) a partire da quelle d’ispirazione cristiana, come la nostra., che proprio di fronte a questa debacle nazionale stanno acquistando consapevolezza delle catastrofiche responsabilità delle scelte di politica economica e sociale operate dal ceto politico che ha governato il nostro Paese durante gli ultimi decenni. In questo caso il discorso Draghi avrebbe – fra l’altro -più possibilità di saldarsi con quello – ben più politico – della riforma istituzionale europea, della costruzione di una nuova Europa, degli eurobond. Anche qui il tema è di tale rilievo da meritare una trattazione separata (ruolo della Germania, della Francia, della Spagna, modelli differenti di bond, ecc.). Lo spazio qui lo impedisce. Inoltre, segnalo per inciso, questa ipotesi è – a mio parere – quella più propizia a quella scomposizione e ricomposizione delle forze politiche, cara all’analisi di Aldo Moro e fatta propria dalla grande tradizione del cattolicesimo politico, su cui Politica Insieme sa di dovere necessariamente puntare.
  3. Il vischioso sistema dei poteri italiani resiste all’”offensiva Draghi” e congela Conte. Fino a quando? Difficile dirlo. Ci sono scadenze istituzionali: referendum, semestre bianco (autunno 2021), ecc. ecc. e qui si entra in quel gioco di precisione che appassiona molti, ma da cui è rischioso farsi assorbire poiché è affetto da una sterilità di fondo: la politica come un gioco dell’oca, noioso e privo di dinamismo interno.

Può accadere. Mi limito a segnalare però tre cose che mi preoccupano in questa terza ipotesi:

  • che per eccesso di realismo si possa cadere nella forma più grave di negazione della realtà. Che si dimenticasse, cioè, quell’appello all’urgenza che Draghi lancia dal FT: ogni giorno passato a limare inutili decreti che (non) incidono sull’economia reale o a rinviare – con bonomia – ad un prossimo decreto di aprile o di maggio – ebbene – anche un solo giorno perso così può costare migliaia di nuove voci che finiscono nella lista nera delle imprese medie, piccole e piccolissime che non ripartiranno alla fine della pandemia (e quindi di famiglie senza pane);
  • che, sempre per eccesso di realismo, finissimo (in 60 milioni) con il non capire nulla di ciò che sta accadendo oggi – in queste ore – oltre i nostri confini. Con Gualtieri che chiede (col sostegno della Meloni, magari!) all’”Europa” – cioè alla Germania – di rinnegarsi, e la cattiva “Europa” che dice no. Europa, in questa accezione, è sempre fra virgolette perché – a mio parere – l’Europa di cui parlano Gualtieri, Conte, Meloni, Bagnai, ecc. è un puro oggetto dell’immaginazione e della falsa coscienza di un paese in declino (ma su ciò il discorso sarebbe lungo). E mentre noi galleggiamo in una realtà su cui non abbiamo alcuna presa, nuovi equilibri geopolitici si vanno a ridisegnare (detto per inciso, per la prima volta in maniera quasi didascalica Stati latini e Stati nordici si fronteggiano). Leggo in filigrana nell’intervento di Draghi sul FT  proprio questa consapevolezza mentre mi domando  se il binomio Conte-Gualtieri (per carità di patria non cito il terzo nome), sia “fit to run Italy” in uno scontro intra-europeo senza precedenti che mette in gioco la sopravvivenza economica del nostro Paese.
  • infine, consentitemi una preoccupazione personale: in nessun caso vorrei finire fra i sostenitori della “dottrina Castelli”, secondo la quale chi arranca con la matematica può rivoluzionare la teoria della relatività e chi dimostra – a volte – qualche abilità in banali interviste televisive può provare a tenere in mano le leve di un paese di 60 milioni di persone sul filo del baratro.

Enrico Seta

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