Lo scontro che si sta consumando tra Tajani e Salvini non è una lite tra comari, a differenza della perenne tensione tra lo stesso Salvini e Giorgia Meloni che si contendono, a morsi, brani e brandelli di uno spazio elettorale che condividono, cioè l’area politica tout-court reazionaria del Paese.

Al contrario, tra Tajani e Salvini si è , con ogni probabilità, aperta una di quelle faglie che, quando si manifestano nella tettonica terrestre, producono terremoti.
Perfino devastanti, ma a loro modo capaci di trasformare la configurazione di un territorio, anche assestandolo secondo una prospettiva di maggiore stabilità. È piu’ appropriato parlare di scontro, piuttosto che tra i due leader, tra l’originaria aspirazione liberal-democratica di Forza Italia ed il greve populismo demagogico, altrettanto originario, della Lega.

Due considerazioni vanno premesse.
Anzitutto, una forza politica – e questo vale per tutte – per quali e quanti siano gli sviluppi della sua azione, mai o quasi mai si discosta dalla sua impronta originaria. Questa può apparire offuscata, oppure artatamente velata, o perfino tradita, ma resta pur sempre presente ed attiva, al punto che, qualora si vada incontro ad una stagione difficile, solo rinverdendola si può riprendere il cammino.

Seconda considerazione: noi, troppo spesso, personalizziamo gli eventi della politica. In tal modo finiamo per darne una rappresentazione un po’ fumettistica e ne perdiamo il vero, autentico significato, disancorandolo dalla sua reale consistenza storica e dal suo effettivo spessore tematico. È esattamente il rischio che dobbiamo evitare nel caso di specie che cerchiamo di analizzare.

In altri termini, è, di fatto, innaturale un rapporto prolungato, stabile, addirittura strutturato e complice tra portatori di una cultura politica liberal-democratica e la curva, più o meno estremista, delle destre. Dissonanti tra postura “nazionalista” ed inesausta aspirazione “secessionista”, orientata ad un sovranismo “italiota” fasullo, inteso come bozzolo entro cui scatenare quello vero delle plurime identità loco-regionali, di fatto, più prima che poi, conflittuali.

In fondo, va riconosciuto che solo la personalità di Silvio Berlusconi ha consentito, fin dal ‘94, di concepire e poi mantenere nel tempo, sia pure tra alterne fortune, un’alleanza di per sé innaturale: da una parte sdoganando il MSI, dall’altro offrendo alla Lega l’occasione e l’opportunità sprecata di
assumere un compito ed un ruolo di responsabilità nazionale. Va notato, per inciso, che, in quel contesto ormai così lontano nel tempo, Fini – e non fu un risultato trascurabile – mostrò di comprendere ed accettare quella lezione della storia che, cocciutamente, Giorgia Meloni rifiuta di apprendere.

Ora giungono al pettine anche i nodi più riposti e le criticità insanabili di un’alleanza impropria. Infatti, per tornare ai giorni nostri, il voto contrario alla Presidenza Von der Leyen del primo partito della nostra maggioranza di governo, cioè, di fatto, della Presidente del Consiglio dei Ministri, non può essere derubricato ad incidente di percorso e non è affatto una bazzecola che il caldo dell’estate si incaricherà di sciogliere, come neve al sole, da qui all’autunno.

È, al contrario, una vicenda di capitale rilievo che getta il sistema politico dell’ Italia in una condizione di continuo e persistente bradisismo e costringe tutti – singole forze politiche e relative appartenenze d’area – ad abbandonare i minuetti ed i balbettii cui abbiamo assistito fin qui, in un gioco inutile e perdente di rimandi incrociati, per lasciare posto, per chi se ne mostrerà capace, ad un’assunzione seria e severa di responsabilità nei confronti dell’Italia e del suo ruolo europeo ed internazionale. A costo di rompere l’assuefazione e le briglie di antichi ed anchilosati rapporti, per osare davvero un cambio di passo e la trasformazione epocale di cui l’Italia ha bisogno. Guardando – un po’ come si fa con i farmaci – ai principi attivi che agiscono nel profondo delle culture politiche in campo, piuttosto che alla nomenclatura delle loro loro confezioni commerciali disponibili al momento.

Delle contraddizioni intrinseche alla maggioranza di governo si è detto, ma altrettanto vale per il fronte avverso – “campo largo” o larghissimo oppure a geometrie variabili che sia – e così per un “centro” che ci vuole, ma senza i giochi fantasmatici ed i funambolismi cui abbiamo assistito fin qui.

Per farla breve, poiché la politica è geometrica e, sia pure a tempi lunghi, finisce per essere sincera, e per dar conto dell’effettiva natura della partita in corso, una forza politica che, come Forza Italia, molti consideravano giunta al capolinea con la scomparsa del suo fondatore, oggi si trova, per inaspettata virtù propria e per la costellazione di eventi in cui siamo immersi, ad avere nelle proprie mani le chiavi del sistema politico e della sua possibile evoluzione, al di là delle schematizzazioni ideologiche che oggi soffocano la democrazia italiana.

Come su queste pagine, sosteniamo da tempo, l’Italia ha bisogno di una “coalizione liberal-democratica e popolare”. Ha bisogno non di fusioni confusive, meno che mai di algoritmi funzionali ad un potere fine a sé stesso, ma piuttosto di una rivisitazione profonda di categorie interpretative che, consentendo di comprendere le reali dinamiche del tempo post-moderno per governarne gli sviluppi, riaccendano la passione civile degli italiani.

Liberali e democratici, democratici e popolari, pur provenendo da differenti percorsi, hanno sicuramente, nei depositi dello loro storiche culture, gli arnesi ed i concetti necessari a costruire, oggi, una visione che sia in grado di “domare la complessità” e – come ci ammoniva Romano Guardini fin dai primi decenni del secolo scorso – “governare la potenza”. Compito peculiare, secondo Guardini, attentissimo osservatore – si vedano le “Lettere dal Lago di Como” – del primo sorgere impetuoso della tecnica, del nostro tempo.

A qualcuno compete la prima mossa e poi chi ha filo da tessere, si metta pazientemente al telaio.

Domenico Galbiati

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