L’Educazione civica è come l’Araba fenice, che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa? Ed è forse per rispondere a questo interrogativo che il Ministro Valditara ha adottato delle nuove “Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica” con il Decreto n. 183 del 7 settembre scorso.

Il testo del Decreto era prima passato al vaglio del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, che ne aveva contestato alcune parti, sostenendo che fosse perfettamente inutile modificare l’art. 3 della Legge n. 92 del 20 agosto 2019, la quale ha come oggetto l’“Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica”. L’art. 3 concerne le Linee-guida.

Nelle sue Linee-guida il Ministro ha articolato le sue proposte attorno a tre cardini: la Costituzione, quale fondamento dell’educazione ai diritti e ai doveri e all’esercizio della libertà e responsabilità personale; lo sviluppo economico e la sostenibilità; la cittadinanza digitale. Ovviamente, l’insegnamento dell’educazione civica è trasversale, non è una nuova disciplina, “perché i nuclei concettuali dell’insegnamento dell’educazione civica sono già impliciti nelle discipline previste nei curricoli dei diversi percorsi scolastici”.

Che significa educazione civica? Intanto, non è “istruzione civica”. Lingua prima, storia, economia, diritto, matematica, scienze… sono parte del patrimonio cognitivo che la scuola e ogni insegnante devono fornire ai ragazzi, utilizzando tutte “le materie”.

“L’educazione civica” ha, invece, quale oggetto le relazioni e i comportamenti dei ragazzi con gli altri ragazzi, con le istituzioni, con la società, con l’ambiente, insomma con “la Città umana”, direbbe Agostino di Ippona. Li riguarda come membri della città.

Come si educa alla città? Se “l’ambiente” nel quale il ragazzo vive – la famiglia, la scuola, l’oratorio, la società sportiva, l’associazione culturale… – incoraggia e premia i comportamenti positivi, cioè il rispetto dell’altro, il dialogo, il controllo delle passioni, la generosità e l’altruismo, e se, all’opposto, scoraggia e punisce, in varie forme e gradi, i comportamenti opposti, cioè la violenza, la sopraffazione, il bullismo ecc…, allora abbiamo a che fare con l’educazione civica.

Con quali strumenti “l’ambiente” può educare? Se ciascuno dei suoi componenti – dal dirigente scolastico, agli insegnanti, ai tecnici, agli ATA – è testimone personale di comportamenti positivi. In questo caso fortunato, si generano “una comunità educante” e “un clima” in cui la pratica delle relazioni positive con l’altro si intreccia con le norme giuridiche, con l’autorità, con la costrizione, con la “moral suasion” e la” legal compulsion”.

La relazione tra etica, diritto, violenza legittima delle istituzioni è essenziale. A meno che si pensi che la natura umana sia angelica o rousseauianamente animale. Proprio perché nessuna comunità è un paradiso terrestre, l’educazione è necessaria per insegnare ai ragazzi a costruirla. E se una famiglia, una scuola, una società, un Paese non sono più capaci di educare i ragazzi nella Città, vuol dire che sono in agonia.

I cambiamenti socio-culturali di questi ultimi decenni – primo fra tutti la crisi dell’istituto familiare – hanno rovesciato sulle scuole problematiche educative, che prima erano distribuite più equamente. Le scuole sono sotto uno stress che non accenna a calare, e perciò provano ad inventarsi nuove azioni e strategie, dentro una quotidiana oppressione burocratica, che divora il tempo dei docenti, con un’autonomia scolastica, che non è in grado di scegliere e assumere immediatamente i docenti che le servono, così che ogni anno, da decenni, una parte dei docenti è inadatta al mestiere, una quota è provvisoria e velocemente intercambiabile, così che i precari sono ad oggi, secondo il Ministro, 165 mila e secondo i Sindacati 250 mila.

In questo quadro le 33 ore annuali di educazione civica trasversale non servono né a istruire né a educare. Qualcosa di più ottiene, semmai, l’insegnamento dell’ora di religione, sempre più ridotta a supplenza di un’educazione alla Città che sta svanendo.

Così al Ministro Valditara è toccato di tentare di raddrizzare una barca alla deriva, senza più né remi né timone, ma con troppi capitani. E poiché non poteva certo abolire una legge che la “political correctness” universale considera un caposaldo della democrazia antifascista, ha provato a riformulare – per quel che vale – i principi ispiratori delle Linee-guida, di cui all’art. 3 della Legge.

Donde la sottolineatura della centralità della persona rispetto allo Stato, il nesso tra libertà e responsabilità e tra diritti e doveri, il ruolo della produzione e del lavoro, ai fini dello sviluppo e della lotta alla povertà, la difesa dell’ambiente, il Made in Italy ecc…ecc… Nulla di nuovo. La verità è che l’educazione civica non ha un fondamento epistemologico-disciplinare, quale che sia il rivestimento ideologico, più democratico-progressista o più liberal-conservatore, che nasconde quel vuoto. È un mix insipido di nozioni e di precetti.

Tanto non è bastato a Valditara per scampare all’aggressione di un dinosauro, sfuggito al set di Jurassic Park: il Consiglio superiore della Pubblica istruzione. Che, nella seduta del 28 agosto scorso, ha chiesto al Ministro di limitare la revisione delle Linee guida di cui al D.M. n. 35/2020 al solo adeguamento alle novità normative e alla definizione dei traguardi di competenza e degli obiettivi di apprendimento previsti a livello nazionale e di confermare la terminologia adottata nelle precedenti Linee guida per la definizione del primo e del secondo nucleo concettuale.

Ma, soprattutto, il CSPI ha osservato che nella Sezione “Principi a fondamento dell’educazione civica” non sarebbe presente un riferimento alla relazione sociale tra individuo e collettività e che l’educazione finanziaria sarebbe ridotta a solo strumento di valorizzazione e tutela del patrimonio privato, dimenticando il lato sociale dell’attività economica., come da Costituzione.

Quanto alla “cittadinanza digitale”, il CSPI ritiene che il divieto di utilizzo di smartphone e tablet nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria e secondaria di I grado, nonché l’uso nelle scuole del primo ciclo di istruzione del tablet per finalità didattiche e inclusive non siano attinenti al tema della “cittadinanza digitale” e, perciò, estranei alle finalità delle Linee-guida.

La tesi audace del CSPI è che l’uso dei suddetti mezzi sia esclusivamente una questione di strumentazione didattica e non di relazioni con gli altri e che, dunque, non si riduca pericolosamente i ragazzi ad una modalità arida e solipsistica di vivere e stare nella Città, assorbendoli in un iper-vortice pieno di informazioni e povero di conoscenze e di relazioni?  La cittadinanza digitale c’entra qualcosa con la cittadinanza tout court?

A queste domande ci si può qui limitare a rispondere con un cenno al soggetto stesso che obbliga a porle, cioè al Consiglio Superiore della Pubblica istruzione? Alla fine di una lunga storia, incominciata il 30 novembre 1847 con il Regno di Sardegna e dopo molteplici passaggi di regimi e di denominazioni, questa nobile istituzione non serve più a nulla, se non come deposito inerziale di vecchie culture burocratiche, di luogo-comunismi di passate stagioni e di personaggi che li rappresentano.

Con l’avvento dell’autonomia scolastica il CSPI avrebbe dovuto essere sciolto quale “ente inutile”. Ma vale la legge non scritta, per cui se un ente è inutile è anche inutile abolirlo.

Giovanni Cominelli

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