E’ tempo che Il folto gruppo di amici che hanno sottoscritto il Manifesto, dopo la sua traduzione programmatica, secondo gli auspici di Politica Insieme, procedano a consegnare al Paese una nuova proposta, creando un soggetto politico autonomo, competente, affidato ad una nuova classe dirigente, libero da ipoteche del passato e da ritorni di fiamma di politici sperimentati che possono e devono dare una mano ai giovani consigliando, formando, studiando, scrivendo senza – e qui sta un punto dirimente – pretendere nulla in cambio, né candidature, né ruoli di primo piano, allontanando ogni sospetto che una nuova presenza di cattolici impegnati autonomamente sul piano politico, abbia un sapore di riciclo di personaggi rispettabilissimi, ma che, in virtù degli stessi meriti acquisiti in quel tempo che fu, sono consegnati ad una stagione ormai superata.
Un soggetto politico nuovo, laico, aconfessionale, aperto a credenti e non credenti, fondato sulla concezione cristiana di cosa siano l’uomo, il valore, il senso della vita. Ispirato ai principi della Dottrina Sociale della Chiesa, ai valori della Costituzione.
Si potrebbe dire che, a questo proposito, il virus non sia giunto invano. Ci risparmia la fatica di sviluppare una riflessione che – per quanto già fosse chiaro come dovesse innovare radicalmente, a cominciare dalla concezione stessa di cosa debba essere oggi un partito politico – probabilmente avremmo dovuto riprendere da capo, o quasi, per tener conto di alcune condizioni imposte dalla pandemia e dalle quali è bene non prescindere.
Almeno due punti preliminari vanno posti in chiaro. Il tentativo faticoso, diciamo pure la scommessa di voler avviare una terza fase dell’esperienza politica dei cattolici-democratici avviene nella precisa consapevolezza di un pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici ormai pienamente acquisito, di fatto irrevocabile ed anzi da assumere come valore. In secondo luogo, immaginare la creazione di un nuovo partito non è cosa da nulla e si giustifica solo a condizione che si sappia esattamente cosa si intenda fare, come e perché.
Sapendo, anzitutto, che essere “partito” significa promuovere un’ azione politica, avanzare un progetto che muove da una sua specificità, da un retroterra culturale chiaro, non equivoco, ma, con tutto ciò, orientato al “bene comune” della comunità complessivamente intesa, in nessun modo finalizzato a promuovere, ad esempio, nel nostro caso, la difesa di veri o presunti interessi “cattolici”, morali o materiali che siano. Insomma, nulla a che vedere con la “fazione”, in una logica perversa da guelfi e ghibellini che, a sua volta, induce la fazione a frazionarsi ancora, come successe nella Firenze del XIII° secolo, nella contesa tra Cerchi e Donati che costò l’esilio a Dante Alighieri.
Una prima condizione da osservare ci segnala come, oggi a maggior ragione, l’attitudine a “pensare politicamente” che abbiamo appreso da Giuseppe Lazzati – appunto in un quadro fisiologico di “pluralismo” delle opzioni politiche dei cattolici – dovrebbe idealmente essere quanto più possibile diffusa. Dovrebbe assumere il carattere di “abito mentale” condiviso se non dalla generalità, da quanti più cittadini, a prescindere dai diversi orientamenti di ciascuno, dentro e fuori il mondo cattolico.
Qualcuno potrà arricciare il naso o avvertire il prurito di una fastidiosa orticaria solo a sentirne parlare, eppure è così: solo un ampio e vasto contagio da “virus della politica” può garantire la necessaria “immunità di gregge”, indispensabile a contenere ed eliminare nel tempo le sacche purulente ed i focolai infetti di antipolitica.
Si tratta di cogliere come – nel tempo in cui la complessità crescente della vita civile si associa alla condizione aleatoria di una fase nuova, inesplorata, impredicibile – la Politica non possa più essere intesa solo come “pratica di palazzo”, ma piuttosto vada oggi compresa come “funzione diffusa”, non più esclusivo appannaggio dei partiti o delle stesse rappresentanze istituzionali, bensì compito che tocca a chiunque lo sappia fare, agli ambiti di società civile che ne sono responsabilmente capaci ed ai cittadini, anche nella loro singolarità. Insomma, va, anzitutto, capita, vissuta e valorizzata come orientamento di fondo del pensiero e della persona come tale; un versante della vita, non una sorta di appendice a latere, bensì qualcosa che consente al cittadino, anche assunto nella sua individualità, di declinare in modo più organico il profilo sociale del suo vissuto.
Il “pensare politicamente” come esercizio, addestramento, attestazione della propria capacità critica, funzionale a quell’autonomia di giudizio che sia capace di resistere alla esondazione del “pensiero unico” che spiana, omologa, appiattisce una società che, al di là della sua apparente effervescenza, appare svogliata e stanca. In questo senso, anche se a qualcuno potrebbe apparire provocatorio o scandaloso, dovremmo avere il coraggio di intonare oggi l’ “elogio della politica” e riscoprirne quella nobiltà intrinseca che le appartiene strutturalmente, al punto che non può venir meno e persiste, anche quando sia offuscata ed offesa da comportamenti inaccettabili.
Sapendo che, concepita nei termini di cui sopra, ha, oltretutto, in sé un’insopprimibile dimensione di “etica civile”, in quanto come “intelligenza delle cose” , consapevolezza dell’orizzonte complessivo in cui si pongono i gesti della nostra vita quotidiana, consente di apprezzarne più lucidamente la consistenza e la collocazione nell’ordito della collettività, l’incidenza, la risonanza, spesso l’eccedenza , anche involontaria, che assumono nel contesto della propria comunità di riferimento.
Del resto, l’esercizio dell’attività politica – a meno che non là si concepisca secondo il metro di una ridicola iattanza del potere che pur frequentemente si riscontra in personalità narcisistiche, talvolta francamente “border line” – è una formidabile scuola di umiltà, nella misura in cui costringe a fare i conti, tenendo i piedi per terra, con le proprie effettive attitudini, registrandone l’abissale distacco dai propri sogni di gloria…almeno per chi è abbastanza stupido da coltivarli.
Oggi, nell’era della complessità, nel tempo che segue la pandemia, la fatica di ragionare in termini politici, lo sforzo di leggere e comprendere come i fenomeni che accadono attorno a noi, i fatti nella loro nuda concretezza, dai più semplici ai più impegnativi, le relazioni, le compensazioni, i reciproci condizionamenti che piani e livelli diversi della realtà quotidiana intrecciano tra loro, concorrono a creare quel vissuto complessivo della “polis” che merita di essere, per quanto possibile – anziché lasciato accadere secondo la pulsione spontanea che, di per se’, anima e muove gli eventi – governato ed orientato al bene comune.
Insomma, la politica un po’ come un’ermeneutica della vita, quella capacità di leggere tra le righe ed oltre le righe da cui prenda forma un meta-linguaggio che sia in grado di dar conto dell’effettiva fisionomia del momento storico, dei pericoli incombenti che mostra, ma anche degli spiragli che offre per camminare avanti.
Abbiamo bisogno di più, non di meno politica. Intesa come quella capacità di “pensare” in termini politici che sia orientata, anzitutto, ad un compito di verità, se così’ di può dire, alla comprensione della consistenza oggettiva delle questioni in gioco piuttosto che ad una logica di potere e di potenza.
Una politica mite e rigorosa, accessibile alla comprensione ed al giudizio di tutti. Abbiamo bisogno di una straordinaria crescita di maturazione civile se non vogliamo essere travolti dalla spinta di eventi che ci sfuggono.
Il partito cui pensiamo deve essere uno strumento, un ambiente che sia in grado di muoversi, anzitutto, in questa logica, capace di sollecitare, favorire, testimoniare questa crescita di consapevolezza condivisa di cui abbiamo urgente bisogno.
Domenico Galbiati