Accendere un lumicino in Chiesa è un gesto forte perché riconosciamo che non ci bastiamo, che siamo limitati, peccatori e inadeguati. È un atto intimo di grande umiltà, una richiesta di amicizia, conforto, comunione e salvezza. Quando lo facciamo la nostra attenzione va alla candela, a come posizionarla. Nel raccoglimento la nostra concentrazione è quindi rivolta al simbolo della nostra devozione, alla rispettosa genuflessione, alle preghiere che pronunciamo a Sua gloria e per i nostri cari defunti. Ai debiti che rimettiamo e ai nostri proponimenti.
Non dedichiamo attenzione al bastoncino che spegniamo e riponiamo, eppure è grazie a lui che diamo vita alla candela, all’atto della nostra devozione, orazione e rito. Lui così esile si consuma così nell’ombra, da fiammella a fiammella, trasmettendo incessantemente luce e calore. Silenzioso, al massimo percepiamo lo sfrigolio fumante del fuoco che vince la resistenza del legno, come noi cerchiamo di vincere le nostre. Non ci pensiamo ma inoltre è l’esca di una incessante catena di fede che invisibilmente ci unisce. Un gesto millenario, denso di storie di speranze, dialoghi interiori, conversioni e pietas. Non sappiamo quante persone lo hanno usato prima di noi e quante candele accende nella sua vita fino a esaurimento, possiamo immaginare però che tante donne e uomini come noi hanno riposto fede, speranze, gioie e dolori in quei gesti, come noi.
Un silenzioso incessante rosario di umanità che ci unisce grazie a quel bastoncino nel gesto che ravviva la speranza. Niente di eclatante ma pure necessario. Un gesto religioso popolare che non conosce razze, confini, censo, ricchezza e poteri. E lui è lì a disposizione di tutti. Essere quindi come l’umile bastoncino, bruciare fino all’esaurimento del nostra passaggio quaggiù è essenziale. Ecco, per quanto mi riguarda, questi giorni di silenziosa inaspettata quarantena nel periodo pasquale suggeriscono un – tutt’altro che facile – compito nella trama delle nostre storie e relazioni, continuare a bruciare e provare ad accendere fino alla totale nostra cenere.
Alberto Mattioli