A un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, in una situazione nella quale le prospettive di pace sembrano veramente esigue e la guerra destinata a continuare per molti mesi se non di più, non può mancare una riflessione seria sull’Unione Europea e il suo ruolo in questa vicenda. La chiamerei la sfida della maturità. Che cosa vuol dire per gli individui essere maturi è abbastanza chiaro: vuol dire aprire gli occhi sulla realtà e fare i conti con essa, trasformare i sogni in progetti concreti (con tutta la fatica che questo comporta), vuol dire anche non dipendere più dai genitori pur mantenendo una relazione forte con essi. Questi concetti possono facilmente essere trasposti anche a livello macro: in questo caso all’Unione Europea e alla sua politica.
Aprire gli occhi sulla realtà: se non si chiudono gli occhi è abbastanza chiaro che la realtà nella quale è immersa oggi l’Unione Europea non è bella ed è densa di insidie. La durissima realtà della guerra di Putin all’Ucraina, gli enormi interrogativi che comporta l’ascesa della Cina allo status di grande potenza mondiale, il disordine che regna nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, solo per parlare dei problemi che ci toccano più da vicino, non possono essere cacciati sotto il tappeto.
In primo luogo è abbastanza chiaro che la guerra, che certo non era mai sparita dall’orizzonte mondiale, ma che di fatto poteva essere archiviata dall’Unione come un qualcosa che non chiedeva risposte serie, se non qualche appello, magari un po’ di aiuti materiali e qualche poco convinta azione diplomatica, è oggi saldamente ai nostri confini e non può essere ignorata.
Questa per la UE è una grande novità e una sfida non da poco! Come è ben noto il processo di integrazione europea, dopo il fallimento nel 1954 del tentativo di creare la Comunità Europea di difesa (la CED), ha lasciato ai margini le politiche estera e di sicurezza, dotandole di strumenti istituzionali deboli e alla mercé del principio di unanimità, mentre le politiche di mercato e poi anche monetarie procedevano con ben altra velocità e vigore. Le ragioni sono abbastanza semplici: da un lato gli stati membri dell’Unione (e in particolare la Francia, potenza nucleare, con un seggio nel Consiglio di Sicurezza delle nazioni Unite) erano (e restano) restii a cedere terreno in un campo che sembra il simbolo della sovranità nazionale, dall’altro di fronte alla grande potenza militare (sia convenzionale che nucleare) dell’Unione Sovietica gli stati europei avevano trovato più conveniente affidarsi alla potenza dissuasiva degli Stati Uniti e integrarsi con questa nella Nato. Questa scelta dava maggiori garanzie sul piano della sicurezza e contemporaneamente consentiva ai paesi europei di risparmiare sulla spesa militare e riservare maggiori risorse allo stato sociale (welfare not warfare!). La fine dell’Unione Sovietica e quindi della più grave minaccia militare non ha certo stimolato l’Unione Europea a portare correzioni ad una linea di sviluppo ormai consolidata e sotto molti profili di notevole successo.
Va notato però che i paesi dell’Europa centro-orientale, liberatisi nel 1989 da occupazione e controllo sovietici se da un lato hanno voluto aderire alla Unione europea, sono stati altrettanto e forse ancor di più interessati alla Nato (in effetti Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria entreranno già nel 1999 nella Nato, ma solo nel 2004 nella UE). La domanda di sicurezza era per loro la priorità. Su questo divario l’UE avrebbe da un po’ dovuto riflettere con più attenzione. La guerra in Ucraina con la sua brutalità ha ora messo in luce alcuni importanti dati di realtà:
1. Un assetto pacifico solido per l’Europa che comprenda anche la Russia non si è realizzato negli anni
passati e le sue prospettive future sono oggi difficilmente immaginabili;
2. L’azione a due Francia Germania per disinnescare dopo il 2014 le tensioni per il Donbass (vedi accordi di Minsk) si è rivelata del tutto insufficiente, e il cosiddetto “motore franco-tedesco” della UE è largamente insufficiente per le sfide odierne della sicurezza;
3. gli Stati Uniti restano al momento l’unico soggetto capace di guidare l’azione europea (che è pure complessivamente importante, ma non in grado di dare la direzione) di fronte all’aggressione russa;
4. In questo contesto la Polonia e i paesi baltici di frontiera con le loro pressanti esigenze di sicurezza hanno acquisito un ruolo di più alto profilo nell’Unione.
Questi dati di realtà non possono essere trascurati quando si prefigura il futuro e dai sogni si deve passare a progetti concreti per l’oggi e per il domani. Negli anni passati l’Unione vedeva il suo ruolo nel mondo come quello di una “potenza civile” la cui influenza sarebbe stata legata alla sua potenza economica e alla qualità (da esportare) del proprio modello democratico e sociale. Non si devono certo gettare al macero gli indubbi pregi di questo modello. Ma va riconosciuto che se non si vuole dipendere unicamente da potenze esterne (i cui interessi anche nel caso più benevolo non sempre coincidono e coincideranno con i nostri) la potenza civile deve essere affiancata da una
capacità di politica estera adeguata ad un mondo non solo pacifico e su questa base organizzare anche una capacità di difesa. Il necessario realismo dice che questo non è certo un processo facile e richiede pazienza e determinazione. Come per altri aspetti del processo di integrazione è necessario avere ambizioni realistiche e ragionare strategicamente. Il che vuol dire che ci si dovrà concentrare su quelle aree della politica estera e di sicurezza dove più chiaramente si è manifestata l’inadeguatezza del ruolo degli stati nazionali e la utilità per tutti di una azione
comune. In secondo luogo bisogna rafforzare la base istituzionale di questa azione per darle gambe più veloci ed efficaci.
La maturità significa anche stabilire un rapporto meno sbilanciato con chi ci ha sinora protetto. Qui ovviamente è in gioco la delicata questione del rapporto con gli Stati Uniti. La condivisione di importanti valori con il grande paese atlantico non deve nascondere la differenza di priorità, di prospettive, di interessi che si manifestano con una frequenza non trascurabile. Non è certo un rapporto che l’Europa possa e voglia interrompere, ma può essere positivamente riequilibrato nella misura in cui l’Unione sviluppi una capacità maggiore di articolare una visione unitaria della propria politica estera e di sicurezza. Una vera partnership nella quale le istanze europee possono
essere seriamente avanzate e fatte valere è un obiettivo per il quale si deve lavorare.
Italia: un governo da valutare
Il percorso del nuovo governo si fa più lungo e quindi i giudizi sul “primo governo di destra” della repubblica possono cominciare ad avere basi reali più consistenti. Ma capire che “destra” questo governo e in particolare il suo leader vogliano essere non è ancora del tutto facile. Si possono per ora fissare alcuni punti.
Il primo, abbastanza evidente, è che Meloni punta molto a costruire una propria credibilità e profilo internazionali trasformando il “sovranismo vittimistico” tradizionale di buona parte del centro-destra in una presenza vocale, ma più propositiva e meno solitaria, sulla scena europea e internazionale a sostegno degli interessi italiani. E’ un dato di per sé positivo e che sembra porsi in scia all’azione del governo Draghi. Naturalmente la strada è piena di trabocchetti e di difficoltà, quindi per valutare i risultati ci vorrà tempo anche perché per ottenere successi in Europa è fondamentale capire quale sarà la capacità di tessere alleanze inclusive.
Rimane soprattutto da capire che cosa voglia veramente dire il richiamo ad una Europa delle nazioni e non federale che ancora Meloni ha espresso: si tratta di una bandierina per distinguersi da altre forze europee o di una strategia della quale sarebbe utile conoscere meglio i concreti obiettivi? E quanto questa strategia potrebbe corrispondere ai bisogni del paese?
Se passiamo al fronte interno del governo il quadro si fa più variegato, con alcune luci ma anche ombre non trascurabili. Accanto a qualche scelta che mostra un certo coraggio politico nel cambiare rotta su politiche del passato i cui problemi di funzionamento erano evidenti, sono emersi anche con più chiarezza i limiti di qualità della classe politica di questo governo con un mix di scorie di una cultura politica nostalgica e di ghetto (più intenta a denunciare l’egemonia della sinistra che a sviluppare un’alternativa con basi solide), di legami con interessi troppo
particolaristici, di toni più adatti a una forza di opposizione che di governo.
Sul fronte delle scelte si segnalano le correzioni al reddito di cittadinanza, il taglio del bonus edilizio al 110%, ma anche degli aiuti sul costo dei carburanti. Si tratta di scelte sicuramente opportune visti i non pochi problemi di quelle politiche e l’esigenza di salvare risorse per interventi più strategicamente opportuni. Tuttavia le modalità di esecuzione e gestione del cambiamento sono apparse piuttosto approssimative e tali da generare problemi e offuscare la stessa bontà delle scelte.
In altri campi il governo ha mostrato di non saper neppure affrontare il problema e ha adottato scelte di rinvio, come nel caso delle concessioni balneari, o laterali e di genere declamatorio rispetto al cuore del problema, come nel caso dell’immigrazione illegale e del decreto contro le ONG di soccorso.
Di ritorno dai suoi (certo importanti) viaggi internazionali forse è il caso che il capo del governo cominci a porsi qualche domanda sulla gestione delle politiche interne e a chiedersi magari se alcuni ministri e sottosegretari (interni? scuola? giustizia?) siano adeguati ai suoi propositi di un governo che mira ad essere di legislatura. O si accontenterà di quello che passa il suo convento?
Maurizio Cotta